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Turandot “invade” il Teatro Comunale di Bologna nella visione cyber-futuristica di Cherstich

La prima di "Turandot" Foto di scena di Andrea Ranzi - Studio Casaluci

Chissà cosa penserebbe Giacomo Puccini della sua incompiuta Turandot in scena al Teatro Comunale di Bologna fino al 07 giugno. Questa la domanda che mi ha accompagnato durante la visione dei tre atti dell’opera lirica prodotta dallo stesso Comunale di Bologna con il Teatro Massimo di Palermo e Badisches Staatstheater Karlsruhe in partnership per la coproduzione del video con Lakhta Center di San Pietroburgo. Partnership importante, anzi essenziale per questo allestimento, in cui le scenografie lasciano il posto a maxischermi a tre ante sui quali vengono proiettati ininterrottamente ambientazioni paesaggistiche e suggestioni visive firmate dal collettivo di video artisti russi AES+F, ideatori anche dei costumi.
Quando si analizza un’opera lirica solitamente si compie un distinguo sostanziale tra direzione musicale e regia, ultimamente spesso corrispondenti a intenti diversi, non amalgamate tra loro anzi a volte diametralmente opposte per intenzioni e risultati. Fortunata eccezione il duo a comando di questa messa in scena. Da un lato Fabio Cherstich, regista proveniente dal teatro di prosa e ideatore del progetto di lirica itinerante OperaCamion, dall’altro Valerio Galli, direttore d’orchestra che torna a dirigere la musica di Puccini al Comunale dopo la Tosca del 2017. I due sono accomunati dalla giovane età, e forse è da ricercare anche in questo la ragione di una versione così coraggiosamente contemporanea, anzi per meglio dire avveniristica, della Turandot.
È il 2070 e la cyber principessa governa il mastodontico e popoloso impero cinese, frutto di uno sfrenato melting pot il cui cuore è Beijing, metropoli futuristica animata da creature zoomorfe e antropomorfe ed edifici ipertecnologici. Il dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni e musicato da Giacomo Puccini, completato alla sua morte da Franco Alfano e in anni più vicini a noi da Luciano Berio in un finale alternativo e meno conosciuto, andò in scena per la prima volta nel 1926. È passato quasi un secolo dunque e dell’ambientazione originale dell’opera, in questa versione non rimane niente o quasi. La vicenda si sposta da Pechino alla metropoli futuristica di cui sopra, forse visivamente più vicina all’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi del 1762, ispirazione dell’opera lirica. Sicuramente non come l’aveva immaginata l’autore, ma legata alla sua visione attraverso il “motore” univoco di tutte le fiabe: la fantasia. La messa in scena di questa Turandot è la prova che l’invenzione fantastica parla un linguaggio sempre attuale, capace di veicolare gli spettatori verso nuovi mondi e immaginari onirici. È in quest’ottica che le immagini onnipresenti durante la messa in scena trovano una collocazione specifica che ha a che fare con le musiche pucciniane soprattutto in senso strettamente teatrale attraverso la drammaturgia.
La maggior parte delle sequenze visive raffigura non la società governata da Turandot, ma la sua visione di «cyber matriarcato radicale», per dirla con le parole dello stesso regista, in cui l’editto della crudele principessa viene messo in pratica con la decapitazione dei malcapitati pretendenti alla sua mano dopo il fallimento della prova dei tre enigmi. Sono gli stessi sfortunati ragazzi a sfilare nelle immagini, dapprima trasportati figurativamente nelle viscere del fedele drago della principessa, poi irrimediabilmente studiati e “sezionati” dalle candide creature antropomorfe dai lineamenti orientali a cui è affidato il rito della decapitazione. Il popolo, interpretato dal coro del Teatro Comunale di Bologna e diretto da Alberto Malazzi, si trova ad assistere attonito alla violenza che si perpetua nel tempo, addomesticato con bandierine fluttuanti e abiti dai colori sgargianti, asservito ad una principessa trincerata nel suo gelo interiore (e qui anche esteriore) che nasconde in realtà una ferita nell’animo, ragione del suo profondo odio per il mondo maschile. Nucleo di un importante messaggio veicolato ancora una volta dalle immagini diventa allora la scena del racconto della storia di un’antenata tradita da un conquistatore straniero che aveva saccheggiato la città e l’aveva condotta lontano dal suo regno, dove era poi morta di dolore. Le immagini parlano al pubblico di violenza sulle donne, riportando gli animi e le menti ad una delle piaghe della nostra attualità, il femminicidio. Il fuggiasco ed esiliato Calaf però riesce a risolvere gli enigmi della principessa tra lo stupore generale e, data la disperazione della principessa, le propone un altro enigma da risolvere: scoprire il suo nome prima dell’alba del giorno dopo per sciogliere il patto che li vincola in matrimonio.
La celebre Nessun dorma viene eseguita da un istrionico Gregory Kunde a culmine di un’interpretazione vocale impeccabile e attorialmente valida, mentre la Turandot di Hui He, ineccepibile nell’esecuzione dei passaggi musicali forse più difficili dell’opera, manca forse di presenza scenica e non risulta pienamente convincente. Un plauso speciale invece merita sicuramente Mariangela Sicilia, commovente nei panni di Liù, ebbra del segreto amore per Calaf svelato solo alla fine. Liù rappresenta l’opposto femminile di Turandot: animata da una feroce voglia d’amare, appassionata e fedele fino alla morte, e la Sicilia conferisce al personaggio la giusta verve attoriale e canora confermandosi soprano pucciniano di alto livello.
Un’opera rischiosa e rivoluzionaria, altamente inserita nella contemporaneità e oltre, che dimostra come la lirica possa adattarsi ai tempi in cui viviamo e servirsi delle tecnologie di cui disponiamo senza tradire la sua natura e anzi, portando con allestimenti freschi e interessanti come questo anche le nuove generazioni a teatro.

Erika Di Bennardo

31/05/2019

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