Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Invito a cena con… Camus. Il Teatro delle Ariette e il couscous

Come nel film “Cous cous” di Abdellatif Kechiche, dove il protagonista decide di realizzare il suo sogno di aprire un ristorante che serva soltanto il piatto arabo del titolo, così anche il Teatro delle Ariette è riuscito in tanti anni di lavoro a coniugare quelle che sono le sue due vocazioni: il cibo e raccontare storie. Il terzetto Stefano Pasquini, Paola Berselli e Maurizio Ferraresi hanno portato in scena, per la prima volta a Roma (al Teatro Biblioteca Quarticciolo) e dopo i successi ottenuti in Francia, “Teatro naturale? Io, il couscous e Albert Camus”, uno spettacolo che intreccia vite passate ed emozioni presenti grazie anche alla forza di uno dei testi fondamentali del novecento, “Lo straniero” dello scrittore nato in Algeria e Premio Nobel per la Letteratura 1957. Riprendendo il titolo di un altro dei loro lavori, non sbagliamo di certo affermando che questo è proprio un “Teatro da mangiare”, portando l’evento su un livello sensoriale fatto di sapori, odori e sensazioni.Couscous2
Non esiste platea; non esiste quarta parete. L’intento delle Ariette è quello di rendere partecipe lo spettatore che viene accolto alla stessa stregua di un commensale per il rito che si consumerà sul palcoscenico. Già solo entrando siamo inebriati dalle fragranze di aromi della tradizione culinaria algerina e, invogliati da ciò, prendiamo posto nello spazio scenico costituito da due file contrapposte di sedie e tavolini, illuminati dalla luce di lampadine sospese, e una tavola/cucina dove ribollono le pentole con gli ingredienti; il racconto sarà scandito dal tempo della preparazione della ricetta. Come quando sgraniamo il couscous prima di completarne la cottura, così si separano e confondono anche le storie principali di due anime, tra somiglianze sfumate, inciampi dell’esistenza e scelte che formeranno il carattere. Sono i ricordi degli anni giovanili di Stefano Pasquini che, seguendo una ragazza originaria di una famiglia spagnola fuggita in Algeria al tempo della Guerra Civile, da Bologna si ritrova in Francia a fare le prime esperienze di vita e di amore, imparando a cucinare. È qui che entra in contatto per la prima volta con le parole di Camus, di quelle dello “straniero” Meursault che vive la vita in modo sincero, vero e scevro da menzogne e convenzioni, votato alle leggi della natura.
Couscous3Tra un bicchiere di vino, un tarallo e la selezione delle verdure – che gli spettatori sono chiamati a tagliare – si riflette sul destino dell’uomo, sul sentirsi straniero in una situazione, in una storia sociale – come poteva essere quella italiana della fine degli anni settanta – nel mondo in generale. Per Pasquini, come per Meursault, si deve affrontare una quotidianità fatta d’incontri e insegnamenti, sole rovente e polvere: è quell’esistenza che Camus rende concreta come qualcosa di assurdo e illogico che succede ineluttabilmente, di quelle parole che vengono lette e scandite in scena da Berselli e Ferraresi che portano avanti il racconto con incisive azioni simboliche – come l’immergersi in una tinozza piena d’acqua posta al centro della scena o rievocando l’uccisione di un algerino per mano di Meursault («quel maledetto capitolo sesto»). La vicinanza tra noi e gli attori crea quella forte empatia di una vicenda fortemente autobiografica, ma che si colora di caratteri universali se non altro nella presa di coscienza della nostra natura di uomini liberi e solidali e di come percepiamo e sentiamo la realtà.
Per Meursault ci saranno la prigionia e la condanna a morte. Per Pasquini, il ritorno nostalgico, ricco di volti, ricordi e ricette, a Bologna. Il viaggio si è compiuto. E anche il couscous è pronto. Viene allora servito a tutti noi, nutrimento di una memoria che è rinata lì davanti ai nostri occhi. E se Camus dichiarava che l’assurdo risiede nel rapporto tra l’uomo e il mondo – e non è un caso che “Il mito di Sisifo” segua “Lo straniero” di qualche mese nel 1942 amplificandone il concetto – sentiamo di avere avuto un senso in quella tavolata, che il nostro destino forse è cambiato nella comprensione e condivisione della bellezza di un momento comunitario che prosegua anche dopo, non svanendo.

Marco La Placa 21/02/2017

Foto: Giovanni Battista Parente, Stefano Pasquini

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM