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Teatri del Sacro: a Dio piace il teatro

ASCOLI – La ferrovia che corre sull'Adriatico ci sta dicendo che tra non molti anni il mare se la mangerà. Attendiamo. Lucca addio. Dopo cinque edizioni (il premio è biennale) i “Teatri del Sacro” cambiano partner, immaginario e fondale, dalla bianca città nella rossa Toscana alle Marche dove ancora lo Stato Pontificio che fu si fa sentire. Le zone sismiche delle ultime scosse telluriche drammatiche sono qui a pochi chilometri di distanza. Nell'immaginario collettivo Ascoli è ancora Tonino Carino, il telecronista delle partite della squadra del presidente Rozzi a Novantesimo Minuto: raccontava di Juary e Dirceu, Mazzone e Anastasi. La Piazza Arringo e quella del Popolo con le pietre a riflettere il sole riempiono e svuotano lo sguardo. Le olive ascolane sacrosono sopravvalutate. Alcune piccole strade, quasi dei vicoli, qui vengono chiamate “rua”, e il riferimento alle rue francesi è tangibile. Sulla Quintana sventola anche una bandiera gialla e rossa, e il rimpallo non è alla Roma tottiana. Le architetture ricordano la Pienza papale o, da lontano, lo skyline ci fa pensare allo sfondo di Anghiari. Il travertino è liscio e poroso assieme. In piazza è l'anisetta che va per la maggiore, il liquore tipico della zona al gusto d'anice che già Gadda citò nel suo “Pasticciaccio”.
Quattordici i testi vincitori di questa edizione (in scena dal 4 all'11 giugno), rispetto ai venti di due anni fa. Ingresso libero. Funziona e regge benissimo al cambio di location la direzione artistica di Fabrizio Fiaschini, artefice e front man del successo popolare di quest'annata. C'è tutto un mondo, sconosciuto ai più, che ruota attorno al binomio teatro-Chiesa. Sono un migliaio infatti le parrocchie italiane che hanno attività artistica, prettamente cinema ma molte hanno anche un palco dove portare a fedeli, e non (in molti paesi la chiesa è ancora punto di riferimento culturale e ricreativo dell'intera comunità), storie, racconti, narrazioni d'interesse e clima non necessariamente religioso ed evangelico. Una trentina sono quelle che, in accordo con CEI, Federgat e ACEC, accolgono le proposte uscite dai “Teatri del Sacro” (a questo proposito funzionale e ben strutturato è il volume “I nuovi Cinema Paradiso”, edizioni Vita e Pensiero, 145 pp, 16 euro), una bella risorsa per tante compagnie che cercano nuovi spazi e repliche in un sistema teatrale abbastanza bloccato e in rosso. Tre i teatri ascolani a disposizione: il Ventidio Basso, il San Pietro in Castello, l'ex Chiesa Sant'Andrea.
sacropiccoloCinque voci in nero, il pretesto è luttuoso ma lo svolgimento si apre e amplia a vari registri, cinque donne che a suon di coro a cappella si raccontano, spiegano i diversi stati d'animo d'una esistenza. La coloritura di questo “Piccolo canto di Resurrezione” non è così coerente e passa velocemente dalla depressione, ovviamente tinteggiata di pesante cupezza, alla frivolezza di amori finiti e ritmi sciolti e tambureggianti, dal tentato suicidio a temi futili e gioviali. Cantano, e lo fanno bene, si danno il cambio, si spalleggiano, si supportano, si susseguono, si inseguono in queste rime giocose (più apprezzabili rispetto alle parti drammatiche più scontate). Sembrano cinque donne del Sud, sulle loro seggioline di fronte a casa, a prendere il fresco della vita e a passarsi il testimone di “tutte le volte che sono morta”, che la vita è una dipartita continua, decesso di una parte di noi per farne fiorire un'altra. Ogni giorno è Resurrezione e andrebbe salutato come una festa, una sorpresa gratificante. Le canzoni popolari diventano soul che si fa gospel che si spande nel blues. Ci vorrebbe soltanto più equilibrio per armonizzare, senza gli attuali bruschi cambi di tono, tra le sezioni briose e quelle tragiche, altrimenti il rischio è quello di banalizzare le seconde impastandole nel calderone della leggerezza.
Di stampo troppo televisivo ci è parso invece “Santo piacere” di Giovanni Scifoni che si rifà alla stand up comedy statunitense. E ci sasacropiac anche stare sul palco, lo occupa, lo padroneggia, lo fa suo. Però molti appunti si possono fare a questa disamina che vorrebbe, anche banalizzando con superficialità, scandagliare il rapporto dell'uomo, credente e cattolico, con il sesso. Insomma circumnavigare attorno al continente della sessualità. Il buonismo e il perbenismo si sprecano: “Il miglior contraccettivo è la fedeltà”. La donna è vista come un oggetto, bello per carità, che passa, silente e silenziosa, in reggiseno e mutande, tacchi a spillo e giarrettiere, più volte chinandosi a pi greco mezzi, senza mai avere voce in capitolo né una mezza iniziativa di dialettica o qualche grammo di cervello, deve solo esporre il proprio corpo. Sembra di assistere ad una puntata di quel quiz presentato da Teo Mammuccari, con Flavia Vento sotto il tavolo. Il cabaret da one man show ci ricorda Brignano o Montesano. Alcune battute però sono fuori luogo, come ad esempio quella sulla “pillola dei quindici anni dopo” per i genitori con figli adolescenti “stronzi”. Una pillola che in realtà, lo spiega, è un proiettile per l'eliminazione del giovane; in tempi di bullismo da una parte e di genitori che uccidono la propria prole, non sono più accettabili certe risate. E poi abbiamo anche: “Sodomita è in provincia di Latina”, e giù la platea a sghignazzare. Il racconto su “un bambino down” quando la versione corretta (le parole sono importanti, soprattutto pronunciate dall'alto di un palco) sarebbe “con la sindrome di Down” (Down è il cognome dello scienziato, John Langdon, che ne descrisse per primo la condizione e non fa riferimento al significato “down”, in italiano “giù” o “basso”, quasi ad identificare una scala gerarchica e valoriale nei confronti dell'essere normodotato). E ancora il ruolo del musulmano che sfotte Gesù “con il mantello di Superman” e i cristiani che sono “sfigati con forfora e tartaro sui denti”. Il teatro popolare ha bisogno di rinnovarsi dal punto di vista lessicale ma anche contenutistico. Scegliere di cosa ridere è un atto politico.
sacromaniPochi giorni prima di questo “Il desiderio segreto dei fossili di mare” avevamo assistito ad un'altra piece dei Maniaci d'Amore, “La Crepanza”, che ci era sembrato non ben scritto con una messinscena zoppicante e davvero fragile. Il gusto che ci aveva lasciato era di incompiutezza tendente al banale senza guizzi né appeal. Ci siamo totalmente e assolutamente ricreduti con “Il desiderio” piccolo gioiello di scrittura, tutto sul filo dell'ironia ma soprattutto dell'intelligenza. In un paese tutto di pietra dove non si nasce né si muore, dove l'unica serie televisiva va avanti da infinite stagioni e tutti gli uomini sono spaccapietre, due sorelle (quasi “Le serve” di Genet), una concreta (sforna torte di marmo) l'altra sognatrice (le sue non piacciono, sono morbide), si confrontano. Qui hanno tutti una lastra di pietra, come Obelix, ognuno si porta il suo fardello senza gioia, e le giornate sono tutte uguali tra gravidanze isteriche (non può nascere nessuno) e ricerca dell'amore (sono spaiati, in 73, e solo la sorella “sensibile” è rimasta fuori dai giochi). Fin quando non esce dallo schermo il loro personaggio preferito della soap che sbuca dalla cornice e letteralmente sfonda la quarta parete. L'impossibile diventa reale e quella sensazione di claustrofobia e malessere, quella certezza di non poter andare da nessuna parte si sfalda. Manca lo stato liquido in questo mondo, ma improvvisamente si rompono le acque (arriva il Bambin Gesù?), poi comincia a piovere. A volte i disastri sono la salvezza.

Tommaso Chimenti 12/06/2017

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