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Si conclude venerdì 8 marzo il ciclo di spettacoli proposti all’interno del progetto “Čechov”: sotto la guida di Giorgio Barberio Corsetti, gli allievi registi del secondo anno dell'Accademia Nazionale D'Arte Drammatica Silvio D'Amico, Andrea Lucchetta e Luigi Siracusa, e l'allieva diplomata Francesca Caprioli, hanno lavorato su tre dei testi più importanti del drammaturgo russo: Sulla strada maestraIl gabbiano e Ivanov

Qualche giorno fa abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con la regista di Ivanov, Francesca Caprioli, e assistendo allo spettacolo è stato possibile comprendere, fisicamente ed emotivamente, il suo lavoro intrapreso nei mesi passati con la compagnia: l’obiettivo di sfruttare al massimo i mezzi che si hanno a disposizione, non sprecare neanche un briciolo delle proprie potenzialità ma mettersi alla prova completamente, con ogni parte del corpo, per ottenere un’interpretazione totale. iv

In questo senso gli attori hanno accolto il testo facendolo proprio con grande decisione, sono stati una rivelazione. La messa in scena si affida ad un impianto meta teatrale, che vede gli attori nell’allestimento di Ivanov, alle prese con le prime prove e le battute recitate in fretta, con tanto di riferimento al testo Garzanti e alla pagina del libro. Francesca sceglie di fissare un solo ruolo, il protagonista interpretato dall’ex allievo Massimiliano Aceti, mentre gli altri si scambiano con una destrezza ipnotica. Questa interpretazione fluida, che passa da un corpo all’altro, fornisce l’illusione che ogni personaggio abbia più facce, sentimenti contrastanti, a differenza di Ivanov che rimane uguale a sé stesso in ogni atto; proprio lui che voleva cambiare, iniziare di nuovo a vivere.

La scenografia è scomposta; gli oggetti sono affastellati e ingombranti, simbolo non solo di una ricchezza polverosa ma di fardelli profondi, legati all’animo umano. Gli stessi attori li reggono goffamente: come Anna Petrovna si trascina al collo la testiera di un lettino che pesa come la malattia che la sta uccidendo, Ivanov si nasconde sotto ad un piccolo banco di scuola, di legno spesso, che gli va stretto e non riesce a celare la sua insoddisfazione.iva

Il palco diventa un laboratorio e come in un vero studio di recitazione gli attori iniziano a credere alle parole che escono dalla loro bocca, si emozionano con lacrime vere, commuovendo anche il pubblico. Ivanov non è più un’intenzione astratta ma si materializza davanti agli spettatori diffondendo la sua energia amara e senza redenzione. Gli attori fondono sé stessi con i ruoli, si immergono senza paura, si sporcano le mani e il volto, si espongono non tirandosi mai indietro. La vita, per quanto dolorosa, insoddisfacente, complessa, supera la morte, Ivanov ne rimane vittima e vi rinuncia, perché non ha la forza per vivere una nuova primavera, e i limiti tra la finzione e la realtà vengono aboliti.

Silvia Pezzopane 10/03/19

Photo Credits: Tommaso Le Pera

“Non starò a spiegarti se io sono onesto o mascalzone, sano di mente o psicopatico. Non lo capiresti. Sono stato giovane, ardente, sincero, non stupido; ho amato, odiato e creduto non come gli altri, ho lavorato e sperato per dieci, ho lottato con i mulini a vento, ho battuto la testa contro il muro; senza misurare le mie forze, senza conoscere la vita, mi sono caricato sulle spalle un peso che mi ha immediatamente spezzato la schiena e strappato le vene; mi sono affrettato a consumarmi tutto nella giovinezza, mi sono inebriato, entusiasmato, ho lavorato; senza conoscere misura. E dimmi: era forse possibile fare diversamente?”
Ivanov, Atto quarto

Volge al termine il ciclo di spettacoli proposti all’interno del progetto “Čechov”: sotto la guida di Giorgio Barberio Corsetti, gli allievi registi del secondo anno dell'Accademia Nazionale D'Arte Drammatica Silvio D'Amico, Andrea Lucchetta e Luigi Siracusa, e l'allieva diplomata Francesca Caprioli, hanno lavorato su tre dei testi più importanti del drammaturgo russo: Sulla strada maestra, Il gabbiano e Ivanov. Proponendo una rielaborazione critica, realizzano un percorso che potrebbe essere definito circolare, in quanto l’ultimo testo messo in scena, al Teatro Studio “E. Duse” di Roma il 7 e 8 marzo prossimi, sarà proprio il primo lavoro di Čechov.

Abbiamo avuto il piacere di fare qualche domanda alla regista di Ivanov, Francesca Caprioli, diplomatasi nel 2014 all'Accademia Nazionale D'Arte Drammatica, dopo aver studiato alla LMTA (Lithuanian Academy of Music and Theatre) di Vilnius il metodo dei maestri E. Nekrosius e O. Korsounovas, nonché fondatrice, assieme a Eleonora Pace, Paola Senatore ed Elena Carrera, dell’Associazione Compagnia Francesca Caprioli, nata nel 2015.

Ivanov è la prima piece di Čechov, scritta in 10 giorni o poco più (da quanto si legge nelle sue lettere al fratello), è un dramma di quattro atti con un intreccio complesso e un protagonista, il giovane proprietario terriero, che è incomprensibile ad una prima lettura, poiché sfaccettato, profondo. È stata una tua scelta Ivanov? Come ti relazioni ad un testo così particolare?

"Sì, Ivanov è stata una mia scelta perché è un testo su cui mi sono soffermata molto, anche in passato: quando ero al Vilnius e lavoravo con Nekrosius ho avuto l’opportunità di affrontarlo come interprete, nel ruolo di Sasha. Mi ha segnato molto come esperienza, ma soprattutto mi ha avvicinato alla storia e ai personaggi, che potrei considerare ormai come persone che frequento da anni. Avevo il grande desiderio di intraprenderlo come regista, è un’opera che ti segna".

Quindi hai avuto modo di vivere l’opera sia da un punto di vista interno che esterno: sul palco diretta da un grande regista e ora in prima persona a dirigere una compagnia. Qual è l’esperienza che hai preferito?

"Sempre dall’esterno ovviamente! Ma è chiaro che Nekrosius non si batte, l’esperienza di lavorare con un maestro come lui è ineguagliabile. Non solo come interprete ma anche come assistente alla regia, sempre al suo fianco".

Čechov in Ivanov scrive: “(…) in ciascuno di noi ci sono troppe ruote, viti e valvole perché si possa giudicare l'uno dell'altro in base alla prima impressione o a due o tre segni esteriori.(…)".
Come ben sai uno degli aspetti più complessi da trattare in Ivanov è proprio la caratterizzazione dei personaggi, tu come hai lavorato in questo senso?

"La complessità dei personaggi di Ivanov risiede nella loro “ricchezza”: ovviamente non in senso negativo ma riguardo alla stratificazione di molti caratteri che si coniugano o si sovrappongono tra loro. Essendo il primo testo scritto da Čechov si costituisce quasi come un embrione di tutto ciò che si è sviluppato dopo, smistandosi nelle opere seguenti e nei personaggi successivi. Qui è come se il materiale si configurasse ad un livello archetipico, specialmente per le figure femminili. Prendiamo Anna Petrovna, la moglie di Ivanov, può essere equiparata a tutte le donne sofferenti affrontate nelle opere successive. Sasha ad esempio diventerà Irina (Tre Sorelle) ma anche Sonja (Zio Vanja). Sono tutti personaggi in cui i caratteri si ripetono e si ritrovano. Probabilmente solo nel personaggio di Nina (Il Gabbiano) Čechov raggiunge una completezza totale dello sguardo, grazie ad una capacità drammaturgica compiuta nella descrizione dell’animo femminile. Molto diverso da ciò che si sviluppa in Ivanov, in cui l’autore è “barocco” nel raccontare i personaggi".

Questo si rivela soprattutto nella figura del protagonista, ambiguo e malinconico, che tende ad essere odiato o amato senza vie di mezzo. Tu come ti poni nei suoi confronti? Chi è il tuo Ivanov?

"Il mio rapporto con il protagonista è chiaramente un rapporto di amore, in quanto la fragilità di quest’uomo non si può non capire: spesso i suoi sentimenti appaiono ambigui ed è difficile stabilire cosa stia provando; rabbia, depressione, apatia.. per me la risposta, in questo testo come in altri, la danno gli attori. Il mio Ivanov è il risultato del lavoro che svolgo con l’attore, perché è qui che ho il riscontro della mia lettura. Quando si lavora su un testo di Čechov è necessario partire con un’idea aperta e, all’evenienza, flessibile alla possibilità della sua trasformazione. L’idea del personaggio, di come dovrebbe essere, si pone sempre a metà tra me e l’attore: è nella nostra relazione che prende vita, ovviamente il tutto supervisionato da Čechov che sta alla base. Però la sua verità finale, quella che si rivela sul palco, è il frutto del dialogo tra la mia idea pregressa che si trasforma e si attualizza nel corpo dell’attore".

In questo senso, quanto è cambiata la tua idea di partenza e come è stato lavorare con questo cast?

"La mia idea di partenza è cambiata per questo spettacolo, nel confronto con queste persone, perchè ognuno di loro ha portato un qualcosa in più. Non conoscevo il cast, che è formato dagli allievi del secondo anno dell’Accademia, io ho scelto solo il protagonista, Massimiliano Aceti, anche lui ex allievo come me. Con loro ho intrapreso un percorso lungo, iniziato a fine gennaio, in cui il primo passo è stato un lavoro quasi a livello di laboratorio, in cui, prima di affrontare il testo, li ho voluti portare ad abbracciare uno stile e una visione del teatro che fanno parte di me. Abbiamo lavorato molto sulla tecnica e sulla potenzialità di sfruttare al massimo i mezzi che avevano a disposizione. Chiarito questo passaggio ci siamo dedicati al “montaggio” dei personaggi, sempre insieme. Per me è fondamentale padroneggiare la tecnica, perché il teatro di Čechov richiede un attore presente, capace di pensare un concetto e recitarne un altro, con estrema convinzione e credibilità, facendosi coinvolgere davvero".

Quindi quando dirigi gli attori pretendi un lavoro a 360 gradi?

"Sono stata dall’altra parte quando volevo imparare il metodo degli altri registi e quello è il modo per assimilarlo. Chiaramente, se vuoi imparare un metodo devi impegnarti sul serio, richiede fatica. Se lavoro con Nekrosius per rubargli il cuore mi devo mettere sotto, ho fatto anche da assistente alla regia ma è sempre da un gradino più in basso che parti per capire; devi comprenderlo su di te prima che sugli altri. Il mio modo di dirigere parte dal messaggio che voglio comunicare con lo spettacolo".

E tu cosa vuoi dire con Ivanov?

"Per me questo testo racconta il passare del tempo e come può essere affrontata questa inesorabilità; parla di vecchiaia, giovinezza, malattia, morte, e della possibilità di inserire in questo flusso l’amore, in modo che ne faccia parte".

Sembra però che il protagonista viva questa sua esistenza in maniera completamente distaccata...

"Non so quanto Ivanov sia realmente distaccato nei confronti di ciò che gli succede. Credo che, lentamente, ad un’insofferenza iniziale, si aggiunga una serie di eventi così emotivamente impegnativi da azzerare il livello di considerazione che ha in sé stesso. Quindi l’apatia di fronte alla morte di sua moglie, alla malattia, all’amore di lei, il desiderio di vivere la giovinezza attraverso il corpo di una giovane donna ma non riuscire a fare neanche quello, il fatto di perdere i soldi, la casa, tutto questo aggrava la sua situazione fino a portarlo all’uscita d’emergenza, alla morte. Nel finale di Ivanov, come sai, c’è un suicidio, ma la parte più forte è quella prima. Nel testo la morte è immediata, senza troppe spiegazioni o descrizioni, perché ad avere rilievo sono i piccoli sprazzi di vita e non la scelta finale, il protagonista si sottrae a tutto questo perché ne rimane vittima. La forza quindi non sta nel suicidio ma nella sorte di quelli che restano indietro, che rimangono ad avere a che fare con la vita di tutti i giorni, con la noia che essa porta con sé, e con la grande domanda che Ivanov lascia: come si può incastrare l’amore nella quotidianità della vita? Cosa c’entra? Sono due cose così distanti in realtà. È questo il messaggio più interessante e attuale del testo".

Ivanov venne rappresentato per la prima volta nel 1887, secondo te è giusto continuare a portare in scena testi che apparentemente non hanno nulla a che fare con il nostro presente? E in che modo?

"Secondo me è doveroso continuare a portare in scena Čechov. Ovviamente bisogna trovare una modalità sensata per riproporre testi che possono essere considerati “antichi”, che non è sempre riscriverli ma a volte ci si può anche confrontare con quel linguaggio. Nella versione che sto dirigendo sono gli attori che mettono in scena lo spettacolo, quindi è tutto metateatro, per cui anche il linguaggio diventa ammissibile in quella cornice. Però è una scelta che deve essere motivata. Per quanto riguarda questo drammaturgo in particolare, penso sia sempre esistito “fuori dai divanetti”, è un’energia sotterranea che prende forma con il testo. Detto questo rimettere in scena un testo come Ivanov è imprescindibile poiché crea un legame: sapere che nell’800 i problemi erano gli stessi ti riappacifica col trascorrere del tempo, al di là del progresso, del registratore che hai mano e di tutto il resto, siamo rimasti esattamente allo stesso punto. Non esiste ancora un modo per sconfiggere la vecchiaia, un elisir di giovinezza, non si è ancora trovato uno stratagemma per inserire l’amore all’interno delle esigenze quotidiane della vita senza far diventare anche quello un’esigenza".

Quale è stato il tuo rapporto con Giorgio Barberio Corsetti, nominato Direttore del Teatro di Roma di recente, ideatore del progetto “Čechov”?

"È stato un rapporto tranquillo ed equilibrato, per me non ci sono state limitazioni nella scelta e nella rielaborazione del testo, oltre che nella realizzazione dello spettacolo. Ho avuto totale libertà e fiducia da parte sua".

Silvia Pezzopane 05/03/2019

ROMA - Il viaggio è uno dei più nobili e frequentati modelli di narrazione, declinato fin dall’antichità in innumerevoli forme e significati. La scelta di partire verso una meta, magari ignota, può essere dettata da infinite ragioni: per esempio, dal desiderio di ritrovare la propria identità, facendo i conti con la memoria del passato e con le proprie radici culturali. Su coordinate di questo genere si muove La ballata dei babbaluci – dall’eloquente sottotitolo Ovvero il viaggio mancato di un uomo in vasca –, scritto e diretto da Marco Fasciana e in scena al Teatro Studio Eleonora Duse dal 31 gennaio al 7 febbraio.
Babbaluci 2Suddiviso in dodici capitoli (più un epilogo) che scandiscono il passare del tempo, lo spettacolo si presenta già dalle prime battute come una duplice dichiarazione d’amore da parte dell’autore verso il teatro – che nei 70 minuti che compongono l’opera viene esplorato, smontato e contaminato con vivace ingegno – e verso la Sicilia e il suo straordinario patrimonio di cultura popolare. Il viaggio del protagonista si propone come una sorta di odissea “mancata” e i riferimenti all’omonimo poema di Omero non tardano a farsi notare: la materia narrativa appare però sempre fresca e originale grazie a un attento processo di rimescolamento con la tradizione favolistica siciliana. E così, ad affiancare il protagonista nelle sue disavventure, si alternano personaggi come il simpatico servo furbo, l’inquietante guardiano del faro e la seducente regina di carte, figure la cui sopravvivenza sino ai giorni nostri è stata possibile tramite il prezioso lavoro di recupero e conservazione svolto dallo scrittore e antropologo Giuseppe Pitrè nella seconda metà dell’Ottocento. La felice intuizione di fondere la mitologia di Omero con questo variopinto patrimonio folcloristico permette all’opera di innalzarsi su un piano universale, trasmettendo allo spettatore una serie di suggestioni di fortissima efficacia e di immediata ricezione, in grado di sedimentare e crescere poi dopo il termine della visione.
Babbaluci 3Il lavoro di contaminazione non si manifesta solo sul livello dei contenuti ma anche su quello formale. È sufficiente entrare in sala e osservare la scena per capire subito come l’autore abbia voluto far interagire tra loro il teatro e il cinema: il grande telo bianco sullo sfondo diventa, di volta in volta, uno schermo che va ad arricchire la dimensione narrativa e ad aggiungere uno sguardo da un differente e inatteso punto di vista. Inoltre, la presenza evidente, addirittura davanti al palco, di quelli che sono i mezzi scenici utilizzati per creare certe sequenze esplica la volontà di addentrarsi in una sperimentazione metateatrale molto interessante, a suo modo riuscita, che se da un lato provoca un vago senso di straniamento nel pubblico, dall’altro contribuisce ad amplificare il potere immaginifico della storia.
Presentato come saggio di diploma di regia dell’autore, La ballata dei babbaluci è un lavoro che ne mette in mostra tutte le qualità, dalla padronanza delle fonti di riferimento alla capacità di giocare con i codici espressivi con il giusto grado di consapevolezza e di autocontrollo; e, cosa ancor più importante, costituisce un piacevole, divertente e affascinante viaggio, a cavallo tra sogno e realtà, a cui ognuno di noi dovrebbe sentirsi invitato a partecipare.

Francesco Biselli  02/02/2019

(Foto di scena: Manuela Giusto)

SCANDICCI – “Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo”, Michele, il ragazzo di Udine suicidatosi a febbraio; la lettera integrale la trovate qua: http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/07/la-lettera-prima-del-suicidio-michele-30-anni-questa-generazione-si-vendica-del-furto-della-felicita/3374604/
Diluviano le gocce come le lacrime. Si aprono le acque del sentimento, della riflessione, della commozione. Si piange perché ce l'abbiamo finalmente fatta e in fondo non ci si sperava potesse più accadere, si piange perché, per diluviol'ennesima volta, non ce l'abbiamo fatta come le mille altre volte precedenti. Siamo tutti “L'uomo nel diluvio” (visto al Teatro Studio scandiccese, ex feudo Krypton, ora chiamato “Mila Pieralli”) perennemente marginali facciamo pendant con l'arredamento, siamo numeri per le statistiche, massa allo stadio, chilometri di code. Poco altro. In questa storia ci sono tre elementi, biblici e di riscatto, di piccole vittorie, cadute e risalite: il parallelismo tra Noè e il protagonista (lo stesso Valerio Malorni, autore insieme a Simone Amendola) con Berlino sullo sfondo, panacea di tutti i mali, Sacro Graal del Messia Merkel, Terra Promessa che non esaudisce né esaurisce tutti i desideri ma almeno quello della sostenibilità e vivibilità lo soddisfa.
Una narrazione a blocchi, più vicino alla performance (costruzione nella quale sono riscontrabili svariati difetti di amalgama tra le parti slegate e “incollate”), a strappi, a patchwork, un assemblaggio partendo dallo spicchio centrale sospeso, come crocifisso sopra un altare ipotetico e visionario, immateriale e invisibile, che pare sorriso sdentato o, appunto, nave (siamo ancora al paragone emigranti italiani – migranti africani?) o Arca per la salvezza, i video, i racconti personali, canzoni sparatissime, una lettera-confessione, la lettura di una recensione di un critico tedesco allo stesso spettacolo al quale stiamo assistendo. Potremmo dire, e racchiudere il tutto in una sola parola: autoreferenziale. Ma, d'altro canto, cosa c'è di più urgente della propria biografia?
“La fantasia è un posto dove ci piove dentro” (Italo Calvino).
Quella di Malorni (a tratti, lateralmente, marginalmente, viene alla mente, vedendolo in azione, Ascanio Celestini, sarà per la foga, sarà per il romanesco da guerriglia urbana) è un vivido ragionamento (teatro povero) sanguigno e sofferto, sull'emigrazione dei ragazzi italiani in giro per l'Europa per cercare lavoro, quello stesso lavoro (peggio ancora se è di un'occupazione artistica, creativa o letteraria che si tratta) che in Italia o non c'è o viene affidato ad altri per altri canali, tutto compresso e sporcato da politica, burocrazia, antimeritocrazia, affarismo, nepotismo, mafie. Un po' di luoghi comuni però spruzzati qua e là ci stanno sempre bene a rimpolpare il discorso di precariato ed emigrazione.
“Amo la pioggia, lava via le memorie dai marciapiedi della vita” (Woody Allen).
Ma l'acqua ritorna potente nel discorso di Malorni, l'acqua pulisce e distrugge, dà da bere e scava; l'andare alla deriva sembra essere l'unica via d'uscita, l'annegare è una solida possibilità o, al limite, galleggiare in attesa dello tsunami. Nessuna programmazione, tutto è gestito dal caso e dal caos, aspettando, molte vite inutilmente, che il vento cambi rotta. L'Italia affonda nella merda come già avevano detto in teatro Scimone e Sframeli con il loro “Pali”. Non si può che essere solidali con questa fioritura colorita di rabbia e desolazione che il monologhista mette sulla scena, la sua verve castrata dagli eventi ma non atterrita completamente, la sua energia come cane alla catena che si sfiata fino all'afonia. Il suo è un urlo teatrale ma anche generazionale, sociale ma anche geo-politico di un sistema (quello capitalista come quello teatrale, soprattutto quello under 35, che tende a far sopravvivere e non a vivere degnamente) che ha fallito e si è mangiato le ultime due infornate di giovani con tante belle speranze, lauree, master e competenze che, una volta fuori dalla scuola e gettati nel mondo, si sono ritrovati porte in faccia, destini sbarrati, ad elemosinare un co.co.co, un call center, l'obolo di un voucher senza contributi né malattia né ferie né maternità, accattonando l'ennesimo stage non pagato “ma almeno è un modo per restare nel mercato, per cercare visibilità”.
diluvio1“Alcuni dicono che la pioggia è brutta, ma non sanno che permette di girare a testa alta con il viso coperto dalle lacrime” (Charles Chaplin).
Se in Europa il tasso di disoccupazione giovanile è del 22%, in Italia abbiamo appena sfondato il tetto del 40%: evidentemente c'è qualcosa che non va, o che va peggio nello Stival tricolore rispetto ad altre nazioni. Sarà stato l'euro ad affossarci, sarà la corruzione, tumore che pare inestirpabile dal nostro dna, saranno i nodi della politica sporca e del malaffare, sarà la mancanza di infrastrutture adeguate. Le piaghe sono putrescenti, anche gli eterni ottimisti vacillano, il partito dei rassegnati avanza, mentre il debito pubblico aumenta esponenzialmente. Il mito di Berlino (palliativo, placebo per i sintomi ma non certo cura), città fredda e nuova, dove, come dice Malorni (allievo di Mario Scaccia), si può tranquillamente sopravvivere ma non è la soluzione a tutti i problemi (puoi fare il cameriere e altri mille lavoretti interinali ma difficilmente se hai studiato da ingegnere farai l'ingegnere). Per i nostri trentenni (ma anche quarantenni) è sempre troppo presto fin quando non diventerà troppo tardi: “Il problema non è il diluvio ma la nebbia”. Non si vedono spiragli, zero fessure, poco ossigeno.
“C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo” (Fabrizio De André, “Il Bombarolo”).
Parole schiette quelle di Malorni (piaciute sia alla giuria del Premio “In-box” '14 che a quella di “Scenario”) che però un po' si perdono nel raffronto e continuo paragone tra il Bel Paese, che evidentemente non lo è più, e la grigia Berlino tratteggiata come paradisiaca meta. E l'attore romano, infine, fa addirittura analisi direttamente in scena del suo stesso spettacolo e anzi, dando un colpo anche, già che ci siamo, alla “casta” dei giornalisti, soprattutto quelli teatrali (i più pericolosi e perniciosi), ci dice, lo dice alla critica paludata, come si scrive una vera recensione leggendoci (tutta!!!) quella uscita su Der Spiegel. Non siamo certo del partito di quelli che, se Saviano attacca l'Italia, allora Saviano non è patriottico ma augurarci un futuro da berlinesi non so se sia un auspicio positivo o una fattura di malocchio. “Berlino, ci son stato con Bonetti, era un po' triste e molto grande però mi sono rotto, torno a casa e mi rimetterò in mutande” (Lucio Dalla, “Disperato erotico stomp”).

Tommaso Chimenti 21/02/2017

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