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Baffi a manubrio, tono imperativo da sergente dei marines e pistola luccicante nella fondina in bella mostra: ecco come Troy (Michael Gnat) si presenta sul palco Off Off Theatre di Roma, nel prologo della tragedia tutta contemporanea che è Shooter, andato in scena il 22 gennaio all’interno del festival OnStage!, rassegna sul teatro indipendente statunitense. Troy è l’anima nera dello spettacolo, istruttore-guru di un’identità maschile rifondata sul culto delle armi da fuoco e sull’addestramento al loro uso per bianchi frustrati e sbandati. E proprio qui sta la posta in gioco, come specifica la regista Katrin Hilbe nel presentare lo spettacolo di fronte al pubblico: Shooter è una ricerca “non scientifica” ma “teatrale” sul rapporto che lega la diffusione e l’uso incontrollato delle armi da fuoco con la crisi del maschio (bianco, in particolare), americano e non solo. Sono, non a caso, cinque uomini bianchi i personaggi del dramma scritto da Sam Graber, in una temporalità decostruita che, a partire dalla sparatoria fatale, alterna scene del prima e del dopo, facendo luce sulle premesse e conseguenze dell’evento.

Dagli incastri e dalle risonanze tra passato e futuro del testo, Katrin Hilbe costruisce una rappresentazione efficacemente rarefatta, dove teli bianchi di plastica circondano i personaggi e una densa, opprimente luce blu cala a intervallare le scene, mentre risuonano spettrali voci femminili di chiamate al 911 per aggressioni reali o soltanto temute. È la scena di una società che sembra aver smarrito ogni riferimento sociale, morale, spazio-temporale, all’infuori di quello della paura, da subire o da rispedire al mittente. È un paesaggio materiale e insieme mentale, dove non a caso i botti degli spari sono sostituiti da irreali raffiche di "bang!" onomatopeici gridati da voci fuori scena. È l’incubo interiore ed esteriore in cui si dibatte il protagonista Jim (Ean Sheehy), piccolo e fragile omino che si sente “meno uomo ogni giorno che passa”, rifiutato tanto dalle partner quanto dagli amici professionalmente più realizzati di lui. Jim è l’uomo contemporaneo che non sa più (come) essere uomo, e che nelle lezioni e nelle massime di Troy cerca, prima e più della difesa e rivalsa individuale, quell’“appartenenza” e “fratellanza” entro un sistema, uno “scopo”, più grandi di lui, vani antidoti al vuoto di un presente dove “o sei extra-large o sei piccolo”.

Shooter, allora, centra il bersaglio evitando ogni tentazione di dare risposte (drammaturgiche e sceniche) semplificanti a un problema così complesso. Lo spettacolo illumina più di una faglia aperta nel tessuto socio-culturale del proprio paese, muovendosi con intelligenza tra caratterizzazione precisa dei personaggi e deformazione allucinata, tra dramma ineluttabile e momenti di acida (auto)ironia: anche in quest’ultimo caso è Troy la figura chiave, con la sua grottesca pedagogia della rivalsa attraverso le armi, con le pose quasi scimmiesche che fa assumere al suo allievo per il tiro al bersaglio, da velleitario ritorno alle origini addirittura animali di una virilità vacillante. Ma, naturalmente, è una presenza al di qua dell’umano e dell’organico a dominare la vicenda e la messa in scena: è la pistola il feticcio attorno a cui ruota tutto, l’elemento tematico e scenico che pone tanto il protagonista quanto gli spettatori di fronte alle rispettive contraddizioni. Nell’ansia appiccicosa che ci coglie di fronte all’arma, puntata più di una volta verso di noi, nell’attesa ambigua che sperimentiamo prima di ogni "bang!", ci scopriamo anche noi oggetto dell’esperimento, parte del problema. Perché lo spazio vuoto e oscuro in cui risuonano gli spari è quello in cui ci dibattiamo tutti, ogni giorno di più.

Emanuele Bucci 23-1-2018

ROMA - L’orrore della guerra e il suo tremendo impatto sull’individuo hanno sempre avuto uno spazio rilevante nell’arte e nel teatro, in epoche e luoghi differenti, e in tanti hanno mirato a riprodurre e a mettere in scena sentimenti, esperienze e traumi spesso al limite dell’indicibile. Cry Havoc, opera d’apertura della prima edizione dell’OnStage! Festival all'Off Off Theatre, si pone questo ambizioso obiettivo e si concentra sul dramma dei veterani e sulle difficoltà, non di rado insormontabili, del loro reintegro nella società civile. A rendere speciale e a suo modo unico lo spettacolo è senz’altro la figura dell’autore e interprete Stephan Wolfert, la cui incredibile storia personale costituisce la base dell’intero monologo.
Cry Havoc2Nato e cresciuto nel profondo Midwest americano, in un contesto familiare e sociale che non vede di buon occhio il suo interesse per la danza, colpito in gioventù da un brutto infortunio alla schiena che ne limita la mobilità, alla soglia dell’età adulta Stephan non ha altre alternative che seguire la via dell’esercito e si arruola giusto in tempo per prendere parte alla Guerra del Golfo. L’esperienza del conflitto lo segna duramente tanto che, una volta tornato a casa, Stephan comincia a manifestare i classici sintomi della sindrome da stress post-traumatico. Finché un giorno, mentre vaga a bordo di un treno tra le montagne del Montana, si ferma in un paese ed entra per caso in un teatro dove è in scena il Riccardo III. Ed è qui che arriva l’illuminazione, nell’attimo in cui coglie numerose affinità tra la propria condizione di vita e i versi del dramma di Shakespeare; si tratta di una svolta decisiva, l’autentico preludio a un’insperata via di uscita dal suo status di veterano senza futuro.
Cry Havoc3Solo, sul nudo palcoscenico, con indosso dei jeans e una semplice maglietta nera, Wolfert riesce a rapire letteralmente l’attenzione del pubblico grazie a una performance ricca di carisma e di straordinaria fisicità e intensità emotiva, che alterna momenti esilaranti a sequenze più amare e toccanti. Nel suo lungo e denso monologo, in cui abbondano le digressioni e si inseriscono con sorprendente fluidità diversi passaggi tratti dalle opere di Shakespeare – dal Tito Andronico all’Amleto, dal Riccardo III al Giulio Cesare a cui peraltro si rifà il titolo dello spettacolo –, la guerra è inquadrata come una trappola mortale per l’individuo, un’attività innaturale per la quale si viene programmati in maniera subdola senza che poi ci sia, una volta esaurito il proprio ruolo, la possibilità di tornare indietro e di essere riprogrammati per una vita normale. I numeri parlano chiaro: tra i circa 25 milioni di veterani che vivono oggi in America si verificano in media 22 suicidi al giorno, un segno evidente di come la condizione descritta da Wolfert sia ampiamente diffusa e di come non ci sia un supporto efficace da parte del governo verso tale categoria di persone. Un’opera bella, coinvolgente e riuscita come Cry Havoc nasce dunque non solo dalla necessità di portare all’attenzione dell’opinione pubblica questo delicato tema ma anche con lo scopo di essere un sostegno concreto per gli stessi veterani, sfruttando al meglio l’enorme potere terapeutico e catartico dell’esperienza teatrale in un senso nobile e dal grandissimo valore umano.

Francesco Biselli 22/01/2019

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