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BOLOGNA – Ci sono famiglie che sono covi, tane dove l'odio può macerarsi, fermentare, alimentarsi o farli riunire e stringere in un patto, contro l'esterno, da “Cospiratori”. C'è un astio che, dapprima verso il fuori, contro il mondo, si rivolge e si ribalta all'interno, in quel nucleo che dovrebbe essere salvifico che, al contrario e al contempo, diventa fucina e laboratorio d'esperimenti da esportare fuori da quelle mura così salde, nelle fortezze delle certezze costruite e accumulate, fortino contro l'invasione delle idee altrui, ultimo baluardo di un pensiero diverso dalla consuetudine accettata della maggioranza. I tre personaggi bernhardiani, all'interno della classica impostazione claustrofobica del drammaturgo austriaco, in questo tempo sospeso, “Prima della pensione” appunto, che ancora non è e non può definirsi azione ma soltanto studio, pianificazione, rincorsa, approvvigionamento, stanziamento di risorse e strategia per l'immediato futuro di battaglia, si scontrano, si alleano, cercano e trovano alibi, si danno ragione e si azzuffano dialetticamente con, come ultimo scopo, rafforzare l'unione, convogliare le energie all'interno di questa piccola cerchia, sentirla sempre più unita dal sangue, dalle esperienze comuni passate insieme, da quel senso di appartenenza che crea idealmente una frattura insanabile tra il “noi” e gli “altri”, tra l'interno, conosciuto e rinsaldato, e l'esterno sempre più illogico, irrazionale, non governabile e soprattutto irrequieto, flessibile e ingestibile.pensione
Molto attuale il pensiero di Thomas Bernhard oggi, più di ieri, con infinite frazioni e rotture all'interno della società, piccoli settori gli uni contro gli altri, dove il sentimento e gli interessi nazionali sono scemati in una indefinibile pappa di marmellate trasversali dove vince l'individualismo e nessuno si sente rappresentato fino in fondo dalle istanze politiche né difeso da enti, istituzioni, partiti. Siamo più soli e nella solitudine cerchiamo il riunirci in gruppi sempre più sparuti e periferici dentro i quali covare ribellione e rivincita e vendetta, ci rafforziamo dell'acredine nostra nei confronti del mondo e di quella di tutti coloro che non sono con noi, che non sono noi, che non sono come noi.
In questa casa-chiesa di rituali e grate si sente e si percepisce la chiusura, l'anfratto da setta segreta massonica, l'essere o il sentirsi osservati, circondati, guardati a vista, controllati, spiati. Tutto è buio e scuro in questa guerra civile intestina continua. I ruoli, all'interno di questo triangolo, ora amoroso adesso diabolico, sono chiari e netti e precisi: se nella prima parte il confronto, patteggiamento delle colpe e delle punizioni tra la sorella preferita (Elena Bucci sontuosa e affilata, cinicamente accondiscendente) e quella in carrozzina (ricorda l'Hamm di “Finale di partita” di Samuel Beckett; Elisabetta Vergani contiene in sé lo stallo, la ragione e l'elettricità alla catena), nella seconda trance (a dire il vero gli atti sono tre, un po' troppi) l'arrivo del fratello (Marco Sgrosso racchiude il fervore lucido e la lungimiranza astuta), del capofamiglia, del condottiero e direttore d'orchestra, vertice del poligono al quale le due donne sono soggiogate e dipendenti, chiarifica e certifica l'associazione familiare che si stringe in un manipolo, in un corpo unico contro un fantomatico, e per loro tangibile e reale, pericolo esterno.
È forte la sensazione che spinge e s'infrange contro questo pugno di persone che sono sì “Cospiratori” del sistema dominante, lo accolgono lo seguono non lo contrastano pubblicamente, ma, sotto, intimamente, lo combattono lo studiano per colpirlo e punirlo meglio quando le condizioni pensione1saranno più favorevoli. Che la democrazia abbia infinite falle e crepe di sistema è plausibile e lecito pensarlo e la deriva dittatoriale o totalitaria è in atto e sta riprendendo forza in tutta Europa (basti pensare a Ungheria, Russia o Turchia). Le forze che sembravano sconfitte si sono invece, pian piano e lentamente, corroborate e irrobustite, ricomposte e agguerrite nel sottobosco, infiltrandosi nel frattempo nei gangli nevralgici della società, nei posti di comando, come fuoco sotto la cenere adesso basta un soffio di vento più energico o qualcuno che spinga le masse nella giusta direzione e il gioco è fatto e la fiammata riprenderà con maggior vigore e forza.
Crudeltà e autocontrollo (“ti ammiro e ti disprezzo”, ad elastico la tensione rende il magma interno esplosivo e pronto all'innesco) sono la linfa che scorre in questa triade metaforica di congiurati, nascosti, sepolti, fintamente ammansiti prima di risollevarsi, più incattiviti dal tempo passato nelle loro fogne dorate o catacombe segrete come carbonari (“la musica cambierà”). È in queste stanze chiuse che i sentimenti di rappresaglia e rivalsa prendono corpo e spirito: la loro è una forma di resistenza. Se Vera, la sorella sodale e incestuosamente amante del fratello, e il giudice Rudolf credono ciecamente nelle loro convinzioni, per un ritorno in grande stile e in pompa magna per ribaltare l'ordine costituito (qui il lavoro è paziente, non sono certamente una cellula terroristica, la dialettica è molto più sottile), la sorella Clara, relegata in carrozzella e impossibilitata a lasciare quell'abitazione, agnello sacrificale e capro espiatorio, vittima e cavia (costretta a vestirsi con la casacca degli ebrei nei lager e al taglio dei capelli; “la tua paralisi ha paralizzato noi”) è, a tutti gli effetti, complice silente, come la maggioranza della società, appoggiando con la sua quiete e omertà, nonché con la mancata denuncia o fuga, del sistema ideato, per adesso soltanto sulla carta, dai due.
Sul finale della pellicola “Lui è tornato”, il regista David Wnendt fa dire ad un Fuhrer riapparso e materializzatosi nuovamente dopo settant'anni dalla sua presunta morte: “Ora ho una visione d'insieme e posso asserire che le condizioni mi sono favorevoli, in Germania, in Europa e nel Mondo”. I “Cospiratori” siamo tutti noi ai quali questo mondo e questo sistema sta stretto e che vorremmo ribaltarlo a nostro uso e consumo. La democrazia è soltanto un palliativo che ci protegge lasciandoci insoddisfatti, che ci tutela ma non fino in fondo, che fa di ognuno di noi un numero, un cittadino comune, uno dei tanti dentro la massa, mentre vorremmo sentirci singoli ascoltati nelle nostre diverse e differenti volontà e prerogative. Il futuro è buio, i cospiratori stanno uscendo dai loro covi.

Tommaso Chimenti 19/01/2016

MONTALCINO - “L'estate da noi non è mica un periodo felice che il caldo ti toglie la pace la polvere copre ogni cosa e ti spezza la voce”. Ha ragione Daniele Silvestri. Nella stagione del caldo e dei bikini, delle onde e del solleone aumentano i suicidi. Sarà la costrizione al divertimento forzato, sarà l'appiccicaticcio sudato, saranno le zanzare. “Estate sei calda come il bacio che ho perduto, sei piena di un amore che è passato che il cuore mio vorrebbe cancellare”. Forse l'estate piace solo ai bambini, con i loro secchielli e palette. In un luogo più immaginifico che realistico, più dell'anima e del sogno che terreno hanno luogo “Le vacanze dei Signori Lagonia” (prod. Teatrodilina e portati a Lagonia1Montalcino nel corposo e interessante cartellone ideato dal sensibile, capace e attento direttore Manfredi Rutelli per il finalmente riaperto Teatro degli Astrusi), momento sospeso dove confessarsi, tra la logorrea della moglie obesa e invalida e immobile (Francesco Colella en travestì, riempie la scena con un personaggio statico, sorta di Hamm del “Finale di Partita” beckettiano; anche autore del testo insieme a Francesco Lagi, regia), e i silenzi o i moti gutturali primitivi e ancestrali del marito un po' Shrek e un po' Lerch (Mariano Pirrello in punta di piedi dà tempi e ritmi, come vero metronomo, si aggira come atomo attorno al nucleo), scendere a patti, fare i conti di un'esistenza disgraziata, processarsi a vicenda, condannarsi, forse perdonarsi. Come in “Zigulì”, eccezionale monologo di qualche stagione fa con protagonista Colella, anche qui si parla di figli; non ci sono, fanno capolino, sono pesanti macigni anche se invisibili, indigeribili nella loro assenza che fa male.
Una spiaggia lontana da occhi di altri villeggianti, una “solitary beach”, per dirla con le parole prese in prestito da Franco Battiato: “nel pomeriggio quando il sole ci nutriva di tanto in tanto un grido copriva le distanze e l'aria delle cose diventava irreale: mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare”. Un istmo, una parentesi graffa questa lingua di terra, un limbo d'attese dove non si sente il “sapore di mare che hai sulla pelle” di Gino Paoli né la “voglia di remare per fare il bagno al largo, per vedere da lontano gli ombrelloni” di Giuni Russo. La spiaggia è approdo, è sponda, è andare, è partire. Ma lei, matrona dittatoriale, è ancorata al terreno senza possibilità di movimento e lui, ubbidiente ex muratore disoccupato, costruisce castelli di sabbia perfetti. Uno dipendente dall'altro guardano la marea, la schiuma, le onde, quella massa d'acqua che imperterrita prosegue a Lagonia2lisciare il bagnasciuga e che può essere rivelatrice, che può portare con sé risposte aspettate da un'intera vita. Nei loro silenzi, che fanno massa e sono solidi come mura difficilmente scalabili e costruite pazientemente nel tempo, si sentono i lamenti e le fragilità, le debolezze e i dolori di molte famiglie del Sud portate negli ultimi decenni sul palcoscenico, da Emma Dante a Franco Scaldati, da Scimone Sframeli a Scena Verticale, da Enzo Moscato a Michele Santeramo e Fibre Parallele.
La settecentesca, e sempre da brividi, “Lascia ch'io pianga” (aria di Handel e libretto di Giacomo Rossi) infatti fotografa alla perfezione questi sentimenti di rancore misto a rassegnazione, abbandono e sconforto impastati nelle lacrime seccate, depressione e forza di sopportazione arrivata al limite, sottomissione e accettazione passiva che ribollono dentro, l'abbattimento di giorni e mesi e anni sempre uguali infangati di noia, lo scoramento nell'oggi e la sfiducia che domani le cose possano cambiare, una grande malinconia di fondo che si incastra come Tetris a un'agitazione demoralizzante che li rende inquieti da una parte e docili repressi dall'altra: pentole a pressione tristi e polverose pronte a saltare o a farsi esplodere. La desolazione e il vuoto di questa convivenza divenuta accanimento terapeutico si spande come macchia d'olio amara, si allarga senza salvezza, in preda ai morsi dell'agonia. Forse l'inferno per alcuni è proprio qua, sulla Terra.

Tommaso Chimenti 15/01/2017

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