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Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo: Mario Martone porta in scena il teatro della mente

Al San Ferdinando di Napoli, le amare riflessioni di un artista alla deriva – interpretato da Lino Musella - che ha ancora qualcosa da dire al suo pubblico e si confronta con le donne della sua vita. Andato in scena dal 4 al 14 maggio, lo spettacolo è una produzione del Teatro di Napoli e del Teatro Nazionale, che ha visto di nuovo l’incontro tra Martone e i lavori della scrittrice Fabrizia Ramondino.

Mentre gli spettatori si affrettano a colmare lo spazio accogliente del teatro San Ferdinando, una sagoma indefinita risalta dietro il sipario ancora chiuso, attirando sguardi curiosi. Stupisce scoprire, all’inizio del primo atto, che sul divano elegante posto al centro del proscenio è steso un uomo – finalmente svelato - rimasto a lungo immobile nei minuti precedenti. Una visione a dir poco eloquente, che richiama dall’immaginario un personaggio statuario e perseverante nella sua inerzia: Oblomov, l’eroe celebre del romanzo di Gončarov. A vestire i panni del compositore protagonista senza nome è Lino Musella, reduce di uno spettacolo che dialoga strettamente proprio con il san Ferdinando: Tavola tavola, chiodo chiodo, progetto dello stesso attore e Tommaso De Filippo basato soprattutto sui carteggi e le corrispondenze del nonno Eduardo, risalenti agli anni della costruzione del teatro. Ma se allora incarnava l’artista instancabile, animato dalla passione anche quando intento a portare avanti battaglie impossibili, stavolta è un uomo deluso e amareggiato dalla vita, la cui creatività ferita si è chiusa in sé stessa.

E difatti, il monologo iniziale si apre proprio con un elenco dei giudizi negativi ricevuti dai critici; scagliandosi contro di loro, egli rivendica la propria coerenza artistica. In un dramma in tre atti che lo vede rivolgersi dapprima ai detrattori assenti, poi alla madre – energicamente interpretata da Iaia Forte – verso la quale sembra manifestare una sorta di complesso edipico, alla moglie (Tania Garribba) – personaggio impotente, che non riesce a risvegliare nell’uomo la vitalità perduta – e, infine, alla figlia (India Santella). È grazie a quest’ultima che gli sarà ancora possibile vagheggiare la felicità, ricordando attraverso di lei – giovane donna innamorata di un coetaneo (Matteo De Luca) – le vicissitudini passate; riscoprirà allora sentimenti sopiti e si avvicinerà, per un attimo, all’ispirazione mancata, riversandola sui tasti del pianoforte al centro del palco. Ricorrente è poi la figura del factotum (Totò Onnis), che sopraggiunge alla fine di ogni atto per spogliare l’arredo di famiglia, dietro indolente consenso del compositore il quale assume, anche in questo rapporto, un atteggiamento oblomoviano. Il titolo dell’opera è quanto mai indicativo: un elenco di funzioni, più che di personaggi, dove l’umano si mimetizza tra gli oggetti fino a non distinguersi da essi. È proprio la scenografia – curata da Martone, assieme alla regia – a impreziosire le interazioni nello spazio, impoverendosi sempre più, laddove una casa arredata di quadri e poltrone eleganti si riduce a ospitare unicamente un pianoforte accompagnato da quattro archi. Di tutte le ricchezze sopraggiunte, soltanto l’arte avrà ancora un valore.

Una trasposizione che il regista – che con Ramondino firmò nel 1992 la sceneggiatura di Morte di un matematico napoletano – aveva particolarmente a cuore e che è stata realizzata in collaborazione con Ippolita di Majo. L’intento dichiarato di Martone era quello di riscoprire il contributo della scrittrice, in quanto “le sue prose come il suo teatro esplorano coraggiosamente sentieri espressivi che oggi vengono praticati dagli autori e autrici più interessanti”. E in effetti Stanza con compositore, donne, strumenti musicali, ragazzo è un lavoro raffinato, in cui trovano posto la nostalgia, il rancore, il confronto, l’incapacità di reagire. Un lavoro che chiede però grande impegno allo spettatore: nonostante l’adattamento, il testo conserva infatti una complessità che avvalora l’interpretazione attoriale ma non concede distrazioni a chi ascolta e privilegia l’esperienza intellettuale a quella emotiva (non è distante, in questo, dal “teatro della mente”). Tale limite è forse spiegabile attraverso le parole di di Majo, ritrovatasi a intervenire su un dramma che l’autrice “non ha avuto modo di discutere con un regista o con un editore e che non è mai stato messo alla prova della scena”. Un risultato, dunque, teso tra la volontà di perseguire una trasposizione fedele e il desiderio di lasciarsi plasmare dal palcoscenico.

Annateresa Mirabella
20 maggio 2023

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