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Se l’amore è quel che resta dell’uomo

FIRENZE – Cosa rimane dell'uomo senza l'amore se non i suoi resti? Le briciole assemblate che incollate insieme formano organi e colonna vertebrale e sistema linfatico senza la calce e la malta dell'amore non ci differenziano dagli animali. Cos'è l'Uomo senza l'amore, sembrano versi sanremesi. Purtroppo non lo sono. Sette personaggi, dissolti e dissoluti ognuno a suo modo, prendono la vita così come viene. Alle loro spalle una grande città, di quelle che chiamiamo metropoli un po' invaghendoci, un po' fantasticandoci dentro, un po' sentendoci al caldo del nostro ovattato provincialismo di borgata. Una di quelle città dove le possibilità fioccano, le opportunità sono come manna dal cielo, le occasioni escono come conigli dal cilindro. Peccato che gli erbivori siano malati ed i copricapo bucati e che la sorpresa, quando c'è, sia brutta. Per i sogni ripassare più avanti.
In queste città devi avere lo sguardo sicuro, il passo certo, le mani in tasca, pochi fronzoli, pochi giri di parole. Nessuno è quel che appare. Molti stimoli non significa che tu sia né molto stimolato né stimolante, la noia è la miglior amica, la compagna più fedele, è quella che ti tiene la mano, che ti spinge sul letto, che ti spoglia feroce, che ti fa ingoiare la pastiglia, che ti sfa le coperte, che ti arruffa i capelli, i vestiti, la mente. Dire “Amore e resti umani”, più o meno è attuare un'uguaglianza, come se al posto della congiunzione ci fosse un uguale matematico, come specificare che il primo termine sia la summa, la spoliazione, il rigurgito, la digestione del secondo sostantivo con annesso aggettivo. Cos'è l'amore se non il resto dell'uomo senza tutte le cianfrusaglie e le chincaglierie che lo rendono così materico e tangibile?
Messo in scena da quelli dell'Elfo (che in quanto a scouting, ricerca, import, traduzioni e ad un “naso” particolarmente affinato non sono secondi a nessuno) venticinque anni fa e adesso riportato in vita da questo manipolo vitale, per niente scontato, energico, che regge all'urto delle parole di Brad Fraser senza scivolare, che trascina senza cadere, un bell'ensemble organico, una pasta amalgamata che si spande e si spalma sulle quasi due ore nel dramma, nell'ironia cinica e sfrontata, nel sesso spietato gettato in faccia come unica soddisfazione e che mai si rivela soluzione. In questo mondo frammentato dove gli etero si scoprono o vorrebbero essere o non vogliono ammettere di essere omosessuali, la scrittura di Fraser, peraltro incisiva anche nelle virgole, negli spazi, nei silenzi impomatati, dichiara la sua età, la sua genesi, il suo retaggio culturale, quello prettamente anni '80-'90, post Aids, post Shortbus, in piena recessione thatcheriana e reaganiana, in quella grande bolla così ben decodificata e delineata in “Angels in Amerika”.
Se fuori l'intonaco che reggeva in piedi la megalopoli comincia a disfarsi sotto la pioggia acida dell'umanità, dentro questa casa che contiene le paranoie con cui convivere, le ossessioni da condividere, ognuno cerca la propria “normalità” rimanendo impigliato, come sirena nelle reti di tonnare, nell'idea che si era fatto di sé, nell'idea che gli altri gli avevano attaccato addosso. Non combaciano mai, l'insoddisfazione bussa forte. Il materasso centrale dovrebbe fare riparo e comodità, invece è chiazzato di sangue, che lo rende sporco e pericoloso. È così ognuno di loro, bisogna capire il verso nel quale prenderli. L'ex attore che adesso fa il cameriere (tutto ruota attorno all'icona Giuseppe Sartori intenso nel controllare il corpo e spostare il fisico sull'intenzione), la sua coinquilina (Valentina Bartolo accesa) che cerca l'amore eterno e prova prima con una ragazza lesbica e poi con un giovane uomo sposato, il ragazzino alle prime esperienze sessuali incerto se cedere al maschio che sta dentro di lui o ascoltare la femmina vogliosa di protezione che provoca con la sua tenerezza e ingenuità, un manager (Francesco Petruzzelli ci ha ricordato molto il bipolare Christian Bale di “American Psycho”) che tradisce ipertroficamente la compagna, una voce fuori campo (essenziale ai pesi e contrappesi Cristina Poccardi con una vena di assurdo) di una narratrice sensitiva (quasi la speaker alla radio dei “Guerrieri della notte”), ed a unire tutta questa umanità che si ritrova ad accapigliarsi e a stringersi, a ingannarsi d'amarsi, un serial killer (come fu pochi anni prima da noi il Mostro di Firenze) che fa a pezzi il loro essere bugiardi con se stessi, con una mannaia-falce della morte che agita il loro tempo che stanno inesorabilmente liquefacendo dietro falsi miti o nel nichilismo più insipido e scolorito.
Il sesso, biascicato e gettato come dadi sui marciapiedi lastricati di vetri rotti, è ago della bilancia, vuoto a perdere e mai prendere, pistone che porta con sé l'illusione del riempire ma finisce sempre con lo scaricare e l'evacuazione che avvizzisce ancor più, imbroglia, incattivisce, incarognisce la solitudine incancrenendola. Le favole sono solo bei ricordi (la matrice riccifortiana), in questo scenario qua Cenerentola e Barbie e Biancaneve sarebbero state stuprate al primo angolo, sarebbero state infelicemente ottimiste. Se cammini tra fango e vomito, se la suola delle tue scarpe è fatta di preservativi usati che ad ogni passo ricordano l'umido e il bagnato di un piacere ormai scomparso puoi solo urlare il tuo bisogno d'amore, ma ti scopri afono e atono nello sporco che si sta già, come ruggine, mangiando la tua carrozzeria, intaccando il tuo telaio. “Io che sono una foglia d'argento nata da un albero abbattuto qua e che vorrebbe inseguire il vento ma che non ce la fa. Oh ma che brutta fatica cadere qualche metro in là dalla mia sventura, dalla mia paura. E' un volo a planare per esser ricordati qui, per non saper volare, ma come ricordarlo ora”.

Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 9 aprile 2016.

Tommaso Chimenti 12/04/2016

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