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"Quanto resta della notte": andare a fondo per tornare a respirare

MILANO – C'era una volta “Quel che resta del giorno”. Qui invece, in questo viaggio, la luce è in fondo al tunnel, va cercata, trovata, tenuta, stretta. E' un cammino a ritroso terapeutico questo “Quanto resta della notte” (prod. Manachuma Teatro, visto al Pacta all'interno della rassegna Palco Off diretta da Francesca Vitale), un percorso di Pollicino dentro il bosco andando a becchettare tutte quelle briciole lasciate sepolte dal tempo, un andare a vedere che cosa si è voluto nascondere sotto il tappeto, un cercare consapevolezza eliminando i falsi ricordi giustificatori di un'esistenza traumatica. C'è molto di autobiografico, con le dovute distanze e differenze, in questo testo di Salvatore Arena (regia condivisa con Massimo Barilla) che in scena, come sempre, si dona, si dà, si danna, come bloccato, forzato sulla sua sedia d'ordinanza, mai comodo, sempre appoggiato in punta, pronto a scattare, ad alzarsi ma qualcosa (la storia che sta raccontando) lo tiene legato a terra, a quel passato da rievocare, da far trasudare come Sindone, da far emergere come tossine, scorie, sudore per nuovamente tornare a respirare senza filtri, senza barriere, senza oppressioni. massimo barilla salvatore arena 1024x686

E' una storia che arriva da lontano: un uomo che per lavoro si è spostato in Sicilia e sua madre morente in un letto nella sua casa di Reggio Emilia. Nella realtà Arena è vissuto in un paese nel messinese e si è trasferito, per amore molti anni fa, proprio nella città emiliana. E' un transfert che sboccia e sblocca, che addolcisce e scambia, che sposta le caselle, che mischia la tastiera, che mixa le pedine sulla scacchiera, che crea rimandi psicologici ed eco immaginifiche, apre porte misteriose, spalanca riflessioni. Un piccolo viaggio, di tre giorni come quelli che servirono a Gesù per la sua rinascita e resurrezione, per ripulirsi da un passato ingombrante e martellante e tartassante che non aveva saputo affrontare né accogliere né tanto meno perdonarsi ma che, attraverso un continuo gioco di vita e morte, di salvezze e perdite irreparabili, porta ad una nuova accettazione di sé, una nuova concezione, una nuova idea, forse meno granitica, più imperfetta ma più vera, più fragile e sbagliata, con tutti i limiti dell'essere umano che cade e si rialza, che inciampa ma non per questo molla la presa.

Quanto Resta Della Notte 5 2Arena è su una sediola impagliata e il nero tutt'attorno, il buio dietro, la pece ai lati, l'oscuro sopra la testa, le tenebre che fanno scenografia, il tetro che diventa costume di scena. Un uomo solo nel nulla, fuori la nebbia che tutto cancella, ammanta, patina, lecca come pennellata grigia. La triangolazione è tra Pietro, il protagonista, la madre (se vogliamo continuare con i parallelismi con l'autobiografia di Arena qui potremmo inserire al posto della genitrice il padre per un nuovo miscuglio di senso tra realtà e finzione) e il fratello Antenore. Niente a che vedere con Caino e Abele né con il film “Incompreso” di Luigi Comencini che in alcuni momenti però fa capolino. Un fratello che c'è pur non essendoci più, che è ancora più pressante e presente proprio perché la sua assenza è così pulsante e palpitante. E il racconto si snoda e si incunea in questo passato doloroso fino ad un evento che ha cambiato la storia di tutte e tre le componenti in pista, che li ha mutati, stravolti per sempre. E' una rincorsa questa verso l'abisso per uscire finalmente a rivedere le stelle, è un guardarsi dentro e vedere l'angoscia, la solitudine e, con forza e determinazione, con sofferenza chirurgica, riuscire a risollevarsi facendo tabula rasa, digerendo colpe, ripulendosi l'anima. E si sente Dante e il suo travaglio negli Inferi, come si ha percezione di qualche tocco proveniente dalla pellicola “Una pura formalità” di Tornatore.

Un ritorno necessario alle origini, un perdersi per ritrovarsi, un Ulisse che torna nella sua Itaca e la trova cambiata perché capisce come i suoi ricordi siano frutto di rimozioni, di spostamenti che la sua menteMC 07339 copia ha messo in atto per salvarlo dal senso di colpa che lo avrebbe distrutto, schiacciato, portato a fondo. Ma adesso è arrivato il tempo di fare i conti con se stesso e, grazie alla morte della madre che diventa salvifica proprio perché ha il gusto e il prezzo del sacrificio, riesce finalmente a darsi pace, ad abbracciare quel se stesso bambino che non è riuscito a salvarsi. Il figliol prodigo torna su quegli stessi luoghi che ha voluto abbandonare, lasciare, dimenticare proprio per abbandonare, lasciare e dimenticare una parte di sé, quella che gli faceva più male, quella che lo tormentava, che non lo lasciava dormire. Un linguaggio poetico che si intreccia ad una sintassi quotidiana. E anche il nome del protagonista, Pietro, sa di masso inscalfibile, di montagna dura da scolpire e sconfiggere ma che invece alla fine implode e, come nei Non finiti imperfetti di Michelangelo, i suoi incompiuti, gli “Schiavi” o “Prigionieri”, riesce, con estrema fatica, a rinascere, tirarsi fuori da quelle sabbie mobili granitiche che lo tenevano bloccato a terra e gli attanagliavano le caviglie come un anaconda tra le mangrovie per annegarlo, per togliergli ossigeno. Il passato torna prepotente e, anche grazie a figure catartiche che sembrano uscite da una “Spoon River” della Bassa, angeli o demoni o anime vaganti che siano, che riescono a togliere la polvere dal passato e a portarlo a vedere meglio, a riconoscersi, a darsi una seconda chance di vita. Perché c'è sempre tempo per perdonarsi, c'è sempre tempo per avere un nuovo tempo.

Tommasco Chimenti 10/01/2021

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