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Paolo Rossi in “Molière - la recita di Versailles”: un unico corpo per due capocomici

Nella sala del Teatro Vittoria di Roma, sotto a una proiezione gigantografica del viso di Molière, Paolo Rossi fornisce in un prologo le istruzioni per interpretare lo spettacolo: «Improvviseremo recitando e reciteremo improvvisando», collocandolo fin da subito in una cornice metateatrale. E già dai primi istanti lo spettatore comprende che si troverà davanti a una creazione artistica straordinaria, extra-ordinaria.
Diretto da Giampiero Solari su canovaccio di Stefano Massini, il genio creativo di Rossi – capocomico friulano, con una quarantennale carriera di attore teatrale e televisivo alle spalle – e dieci abilissimi attori della sua compagnia Paolorossi2accompagnati dal vivo da un quintetto musicale (“I virtuosi del carso”) danno vita a “Molière - la recita di Versailles”, in scena fino al 12 febbraio. Nella Francia del XVII secolo, il Re Sole, facendosi protettore e promotore delle arti, ingaggiò Molière come artista presso la reggia di Versailles. Paolo Rossi parte proprio da questa vicenda storica, usando la forza eversiva della risata e dell’amara comicità per schernire i limiti del potere. Con un’operazione di libera riscrittura dell’“Improvvisazione di Versailles” (1663) di Molière, opera senza una vera e propria trama, si compie un viaggio nella vita artistica e biografica di Rossi-Molière e della compagnia, vissuta da entrambi come una famiglia allargata.
In incessanti rimbalzi tra identità reali e fittizie, affinità e analogie tra i due commedianti, Paolo Rossi è Molière, è se stesso in qualità di capocomico che si trova a dover mettere in scena uno spettacolo quasi estemporaneo, nei brevissimi tempi imposti da Luigi XIV. Il prodotto finale non è la commedia compiuta, bensì l’estroso processo creativo e organizzativo in divenire, le prove della compagnia che svelano l’ossatura dell’opera. Così “Il misantropo” Alceste, rigido moralista che detesta ogni ipocrisia legata alle convenzioni e ai compromessi sociali, deve essere rappresentato sotto decreto del Re per un gruppo di ecclesiastici. Da qui prende vita una spassosa versione clericale de “Il Tartufo”, con una esilarante interpretazione di un cubano Papa “Guevara”-Rossi, estremo progressista con basco e stella rossa, creando uno scenario ricco di sarcastiche battute sulla dilagante corruzione spirituale della Chiesa.
Moliere1Come un viaggiatore dello spazio e del tempo immerso tra passato e presente, il pubblico viene sollecitato a scavare nella memoria del proprio bagaglio culturale e stimolato a creare collegamenti grazie ai continui riferimenti sulle vicende politiche attuali per coglierne il lato satirico pungente. Nello scenario contemporaneo dipinto da Rossi in cui chi dovrebbe impegnarsi per il bene pubblico è, in realtà, un’amorfa mediocrità dominata da fini egoistici, il ruolo dell’illusione artistica risulta salvifico («fingere per recitare, recitare per fingere, fingere per respirare»): a teatro si può diventare chiunque perché il suo fine è creare mondi. L’assenza di “uno schermo come la televisione” è esplicitamente sottolineato, come per destare il pubblico e affermare che il teatro non vuole alienare ma rendere partecipi e stuzzicare la coscienza: gli attori si prestano a foto di gruppo estemporanee, vagano per la sala e sbucano a sorpresa nella galleria. Tramite un continuo dialogo con la tradizione della Commedia dell’arte, le maschere degli italiens – dalle quali lo stesso Molière rimase profondamente affascinato, restituendone una propria caratterizzazione e complessità psicologica – diventano quindi vita: sul palco si abita il corpo di un altro come una seconda pelle confortante, “senza maschera non ci si riconosce più”, canta Rossi in una appassionata e melanconica dedica all’Arlecchino. Diventa inevitabile domandarsi continuamente: «È l’attore? O è forse la persona reale che parla? E il personaggio che fine ha fatto?». Queste tre entità, come in estasi, escono da sé e si (con)fondono in un osmosi tra persona(ggi); gli stessi attori per raccapezzarsi devono continuamente chiarificare e ridefinire i loro ruoli. È l’originario significato di “persona”, ovvero “maschera teatrale”, che viene totalmente recuperato e messo in scena. Nell’ultimo quadro, Rossi-Molière è “Il malato immaginario” che teme la morte. Si dice che egli ebbe un malore fatale proprio mentre recitava questa commedia; uomo che fino all’ultimo ha attuato un’eclissi, un allineamento sincretico tra vita e arte, decidendo di abbattere questa distinzione fin dal momento in cui legò il suo nome di persona, Jean-Baptiste Poquelin, a quello dell’artista, Molière. Il copione della vita prevede che Jean-Baptiste/Molière muoia. Ma Paolo Rossi è ancora vivo e la sua morte recitata era in realtà un profondo sonno. Proprio come l’ennesimo spettatore-viaggiatore che, addormentatosi nel tepore della sala e svegliatosi di soprassalto, grida: «Devo scendere a Orte!»... ma il viaggio fantastico è stato compiuto non tanto sul treno per Orte, quanto nella forza dell’illusione scenica. Ebbene «il teatro è un ottimo luogo per addormentarsi».

Flavia Mainieri 07/02/2017

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