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Il grande impatto del Milano Off Fringe Festival: 56 gruppi e molti premi internazionali

MILANO – Francesca Vitale, direttrice del Milano Off Fringe Festival assieme a Renato Lombardo, in questi ultimi anni ha viaggiato per il mondo (da Edimburgo a Orlando fino ad Adelaide) per capire, studiare strategie e portare in Italia un modello di fringe che si potesse adattare all'Italia. Nelle ultime stagioni molti ne sono nati, da quello di Roma a quello più organizzato di Torino. In quest'ottica, con il Milano Fringe attivo dal 2016, quest'anno nascerà, sempre diretto dalla stessa organizzazione, anche il Catania Off Fringe nel mese di ottobre. Questa edizione è stata molto più strutturata, composita, dettagliata delle precedenti con ventiquattro diversi spazi dislocati in città, 56 spettacoli diversi (dal 18 settembre al 2 ottobre), un sito ben curato e preciso (milanooff.com), tanti convegni mirati e workshop professionali, due giurie, quella degli esperti del settore e quella dei giovani, e soprattutto grandi premi per i vari vincitori per esportare il proprio lavoro: il premio della “Giuria dei ragazzi” di 1000 euro, il premio “Valore Italia”, il premio “Avignon Le Off”, con ventun giorni di repliche nel famoso fringe francese, il premio “Soho Playhouse” con due settimane di repliche al fringe di NY tutto spesato, il premio “Hollywood Fringe” a Los Angeles, il premio “Barry Church” con partecipazione al “Fringe di Edimburgo”, il premio “Gothenburg Fringe” per partecipare al concorso svedese, il premio “Stockholm Fringe” per esibirsi nella capitale scandinava; e ancora il premio “Palco Off Catania” con repliche al fringe siciliano, il premio “Binario 7” con una data nel teatro monzese, il premio “Teatro Factory 32” con una recita nello spazio milanese, il premio di formazione internazionale “SRSLY”. Un bel quadro, una grande prospettiva di crescita, una spinta di promozione ottimistica per tante giovani compagnie.

Si sa, nei fringe in giro per il mondo, la miglior scelta è buttarsi nel teatro fisico, nel muto, nel gestuale. Questa la scelta del gruppo austriaco Lemour che qui, selezionati dal fringe di Goteborg, Balloon adventures.jpeghanno presentato “Love's left hand” un lavoro che, confusionariamente, ha miscelato danza, circo, comicità in un frullatore che, senza il supporto della musica, onnipresente, decade e si sgonfia inesorabilmente. Una sorta di presentatrice che propone gag ormai abusate e vecchi numeri di cabaret ammicca al pubblica, gioca con il cilindro, tra mosse, mossette, risatine, si mette una barba finta, si atteggia. La drammaturgia è soltanto musicale e nei rari momenti di pausa si sente tutto il gelo del vuoto che si amplifica e si spande dal palco alla platea, il pubblico cade in depressione perché il vuoto cosmico e siderale morde le caviglie. Guardiamo l'orologio ma il tempo, quando ci si diverte, non passa mai. Se voleva far ridere non ci è riuscito. Ma è un lavoro, fatto con la mano sinistra, che ha anche delle pretese: irrompe in scena una coppia che nell'arco di un minuto ha finito la sua parabola esistenziale di incontro, conoscenza, amore e separazione. Non risulta nemmeno infantile perché anche i bambini lo avrebbero trovato banale e sciatto. Non riusciamo a trovare un appiglio, nessuna salvezza arriverà in nostro soccorso. Tocca rimanere fino alla fine per vedere se ci stiamo sbagliando: ecco che imperversano balletti non sense tra la figlia depressa per essersi lasciata dal fidanzato e la madre mentre il compagno resta inspiegabilmente per un buon quarto d'ora sotto il lenzuolo disperato e temiamo che invece non stia soffocando. La madre si veste come il fidanzato (in una sorta di transfert da Psycho al contrario) e il tutto ha un gusto rancido tra il trash e l'incomprensibile. Ma una è la domanda più pressante che ci ronza in testa: perché tutti e tre gli interpreti hanno i calzini bucati? Non lo sapremo mai, come il terzo segreto di Fatima: insvelabile. Il teatro è moribondo, il pubblico allibito, esterrefatto, restiamo increduli tra il soporifero e pesanti silenzi. La recitazione questa sconosciuta. Senza parole era lo spettacolo, senza parole siamo rimasti noi.

Di tutt'altra pasta “Ballon's Adventures” del Collettivo Clown, certamente uno spettacolo per i più piccoli ma che mai scade nella stupidità del gesto, nel facile, nel triviale; invece ha pennellate, poesia, leggerezza, gentilezza, garbo. Già a partire dai costumi dei due interpreti, uno in giallo e l'altro in blu, una chiara presa di posizione cromatica a favore dell'Ucraina. In scena una grande mongolfiera, che muovono con i piedi come fa Fred Flintstones con la sua auto in pietra, e questi due clown goffi e incerti, sbadati e caotici, “sbagliati” come tutti i pagliacci, dalle scarpe grosse e dal cuore altrettanto ampio che si fanno i dispetti ma sono legati da profonda amicizia. Con dei semplici palloncini allungati e cilindrici compiono trasformazioni alchemiche: diventano gabbiani, poi un arco e racchette da tennis, volante di auto e cintura e tergicristalli, ombrello e sterzo di motocicletta, onde del mare e pesci, maschera da sub e pinnai fiori del nuovo mondo.jpg di squalo, bocca e orecchie di coniglio, salsiccia, fiore, ape e cane al guinzaglio (ricorda l'opera di Jeff Koons esposta al Museo Guggenheim di Bilbao), pappagallo sulle spalle dei pirati, fune, elica, spada, fin quando non vengono ingoiati e fagocitati dalle stesse gigantesche palle. Un messaggio anche ambientalista, per insegnare ai più piccoli che niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma. E che qualsiasi oggetto può portare felicità e stupore.

Due amici, legati da un doppio filo di dipendenza, sadico e masochista, sicuro e incerto, deciso e titubante, decidono di lasciare il nostro mondo e di imbarcarsi per altre terre forse cercando “I fiori del nuovo mondo” (compagnia Teatro Segreto, testo, interprete, regia e costumi di Ludovico Buldini). Arrivati la sera su una banchina in attesa di questa barca-Godot per salpare per altri lidi ci ricordano i migranti che lasciano tutto per cercare fortuna altrove: ma aspettano una barca a vela e il loro abbigliamento con polo, pantaloni bianchi e scarpe firmate li identifica più con Porto Cervo che con la Libia. La notte una tempesta shakespeariana sta per travolgerli e sommerge tutto tranne quel limbo di asfalto, quella boa di cemento che adesso (come l'abbazia francese di Mont Saint-Michel con la marea) galleggia in mezzo alle onde. Soltanto con una scatola magica-oracolo che contiene delle carte riusciranno a placare i marosi e i flutti confessandosi peccati per troppo tempo celati, mettendo sul piatto recriminazioni e colpe, aprendosi finalmente oltre l'ipocrisia di rapporti consolidati e incancreniti. Tra i due emerge attorialmente, e soprattutto una bella voce profonda, Diego Frisina, il personaggio timido e irrisolto. La storia è buona anche se quando si mischia il reale con il metaforico si rischia sempre di non essere credibili. La mattina dopo, quando è tornato il sereno, e i due protagonisti sono usciti indenni da questo sogno-incubo, riappare la strada e uno dei due prende effettivamente questa barca che arriva veramente a prenderlo; in quel momento il simbolismo decade e noi crediamo un po' meno a tutto l'impianto.

Pezzo generazionale, ma di valore e qualità, è questo “Mi ricordo”, del gruppo siciliano Barbe à Papà, scrittura e regia di Claudio Zappalà, con in scena tre brave protagoniste che tirano fuori dai loro magici cassetti ricordi d'infanzia che mischiano il piccolo particolare personale autobiografico con la grande storia che scorre con noi, attraverso noi, malgrado noi. Ne emerge un quadro per niente consolatorio della generazione under 30 confusa, con i sogni spezzati prima ancora di averli pensati o sperati, alla quale hanno tolto anche le illusioni, il lavoro, la pensione che non ci sarà, una generazione cresciuta in una scuola che non boccia più, in una università triennale a crocette che ti dà il pezzo di carta ma non forma, una generazione di ragazzi in balia di telefonini e falsi miti, like sui social e apparenza su Instagram. Un j'accuse. Tirano fuori i loro diari e appunti (hanno cazzimma da vendere e capacità interpretative Chiara Buzzone, Federica D'Amore e Roberta Giordano), come doni, come conigli da un cilindro delle meraviglie che però porta più lacrime che sorrisi, poesie, scatti di viaggi. Ne esce fuori insicurezza, incertezza sul domani, anzi voglia di vivere soltanto il presente perché il futuro, Mi ricordo - ph Vito Raia 3.jpeganche a breve gittata, fa paura, perché tutto è in rapido cambiamento e non si riesce a prendere le misure e questi ragazzi non hanno antidoti in uno dei Paesi con la più alta disoccupazione giovanile, dove i ragazzi non vanno a votare perché non si sentono rappresentati, dove è facile deprimersi e demoralizzarsi perché non si hanno orizzonti, perché la meritocrazia non è di casa qui, perché i migliori se ne vanno all'estero. Ed escono da questi parallelepipedi medaglie e cd, libri e sciarpe di squadre, polaroid e cravatte, cappelli. Sono giovani e sembrano parlare con una nostalgia canaglia di un mondo lontanissimo e soprattutto che non ritornerà, come se quella felicità non potesse tornare mai più. Si sente sfiducia e rassegnazione e un lasciarsi andare che fa male all'anima. Ma più che altro, la parola che torna più spesso è “paura” di un mondo che non c'è più e di uno che non si riesce né a costruire né tanto meno a vedere né immaginare.

E' complicato quando continuamente ti cambiano le regole sotto al naso e tutto si muove troppo velocemente e tu non sai, anche perché nessuno te lo ha insegnato, come muoverti, in quale direzione andare in questo deserto dove se la cava chi ha le spalle coperte o talenti sopra la media: ma tutti gli altri? Rimangono in quella vaghezza che va ad ingrossare il fiume degli insoddisfatti, dei consumatori compulsivi, degli infelici che si sfogano sulla tastiera. “Quello che oggi sembra imprescindibile domani sarà dimenticato”, “Quello che oggi sembra importante domani ci sembrerà ridicolo”. Senza punti di riferimento, in balia delle onde, in mezzo a cambiamenti che non si sanno fronteggiare, senza scialuppe di salvataggio è normale annaspare, galleggiare a stento se va bene, o perdersi nel vittimismo o peggio ancora nel nichilismo. I ricordi fanno male perché ti portano nel terreno caldo familiare quando tutto era più piccolo e certo, quando le responsabilità erano ovattate, quando tutto era più semplice. Questi ragazzi sembrano siano senza pelle, più soggetti alla sofferenza, senza rimedi né farmaci contro questo mondo globalizzato che ogni giorno sembra sempre più grande tanto da soverchiarli, fagocitarli in un solo boccone, dove tutto è da consumare e in fretta altrimenti si perde, si sciupa, si rompe o qualcuno ce lo ruba: “Sarà così spaventoso il futuro?”, si/ci chiedono. Non possiamo rassicurarli, purtroppo. “Perché a vent'anni è tutto chi lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età”, diceva Guccini indossando il suo “Eskimo”. Non viene da condannarli questi ragazzi, verrebbe invece da abbracciarli. Sarebbe bello dire loro “Andrà tutto bene”, ma anche i cartelli sui balconi accanto al basilico si sono sdruciti e sgualciti e scoloriti.

Tommaso Chimenti 26/09/2022

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