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L’appartamento – sold out: una commedia dal gusto amaro

Se è vero che il teatro, a metà tra realtà e finzione, porta in scena una quotidianità sublimata dei suoi aspetti più profondi, più tetri e alle volte più ilari, è vero anche che il primo obiettivo di uno spettacolo, commedia o testo shakespeariano che sia, è, a nostro parere, quello di scaturire nello spettatore un’emozione che resta una volta tornati a casa, un pensiero che sa bussare alle coscienze. Se il teatro è tutto questo “L’appartamento – sold out”, in scena dal 24 Novembre al Teatro Manzoni, ha mancato l’epicentro mettendo in atto una buona idea senza saper tradurre l’intento e scavare nel profondo di una storia quanto mai attuale.
Tre coppie – una romana, una marocchina e una indiana - ritrovatesi tutte sotto lo stesso tetto, vittime di una truffa, colpevoli di aver pagato una mazzetta di ventimila euro per una casa troppo stretta per racchiudere parti del mondo così lontane tra loro. Senza falsi perbenismi tra un insulto e l’altro si convive con il razzismo, finché la scena non cambia nuovamente e un atteso inquilino li coglie di sorpresa.
Il proprietario, interpretato da Angelo Orlando, creduto morto, torna a casa e la ritrova invasa dai sei protagonisti che all’occorrenza sapranno essere servizievoli e affettuosi con l’anziano malato. In fondo qualche riverenza in cambio di un buon testamento è un affare e non c’è bisogno di parlare la stessa lingua per capirlo.
Le coppie, senza più un soldo e una casa, non hanno scelta: o impareranno a condividere gli stessi spazi, ad affrontare la paura del diverso o dovranno accomodarsi nella gelida e multietnica culla chiamata ‘stazione Termini’. Armando (Stefano Ambrogi), Osama (Jonis Bascir) e Ravì (Rishad Noorani) incarnano i prototipi del nostro Paese: il cinquantenne in cassa integrazione che la società dimentica e abbandona, ma che nonostante la precarietà a certi lavori di ‘secondo livello’ non si abbassa. Osama, l’islamico sbarcato a Lampedusa, sopravvissuto grazie al suo Allah, che tutti additano come il “terrorista”; e non importa se paga le tasse, se rispetta il prossimo, se vive con onestà, suo figlio nascerà e crescerà profugo in terra italiana.
E poi Ravì, l’indiano fiero delle sue origini, buon lavoratore sì ma pur sempre un selvaggio per gli occidentali. Uno dei tanti extracomunitari che popolano Piazza Vittorio, strappata senz’armi ai romani, che rubano lavoro a chi non ne ha, che pregano un elefantino e che se acquistano una casa possono godere di uno sconto speciale: perché l’ospite che sia gradito o meno è buon costume accoglierlo come si deve.
Le donne Kalindi (Marine Galstyan), Amina (Alida Sacoor) e Irene (Gabriella Silvestri) fanno da collante nel continuo scontro fra i tre e sono l’unico elemento di armonia in un’atmosfera casalinga dove regna la sfiducia e la diffidenza verso il prossimo, un muro reciproco che neanche la battuta scherzosa riesce ad abbattere.
Il testo, scritto da Francesco Apolloni - e portato in scena dall’originale adattamento registico di Vanessa Gasbarri - mostra una realtà che preme nelle nostre vite oggi più che mai, tira in ballo temi come il razzismo, l’integralismo degli immigrati e la diversità religiosa, ma cade forse troppo nei luoghi comuni, rischiando di non spingere lo spettatore a riflettere mentre si diverte.

Giada Carlettini 27/11/2015

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