CLUJ – Siamo nel nord della Romania proprio nei giorni in cui il Teatro della Limonaia mette il suo focus con “Intercity Bucarest” sulla drammaturgia rumena. Qui ce l'hanno con gli ungheresi; dicono che gli portano via il lavoro. Paese che vai, stessi problemi che trovi. Siamo a quattrocento chilometri da Bucarest, con il treno undici ore. Una sola autostrada chiamata “Del Sole”, come la nostra Milano-Napoli, arteria del sistema del traffico su asfalto, dalla capitale a Costanza, sul Mar Nero. Per il resto strade e binari a scorrimento lento. Siamo in Europa ma si paga ancora con la vecchia moneta, il Leu. Cluj è una cittadina viva, per lo più universitaria, un'aria austroungarica di fondo, viali borghesi ed eleganti, la vecchia cittadella con i ciottoli. Impossibile lasciarla senza aver addentato, più e più volte, i covrigi alle visciole da Gigi, bagel caldi riempiti di salsa alle ciliege. Infiniti i rotoli di fili neri dell'elettricità aggrovigliati ai pali.
Soltanto ad ottobre fioriscono due festival di cinema, tre teatri, quello Nazionale dell'Opera, con mille posti, e due spazi più piccoli, una Casa della Cultura molto attiva, un teatro in lingua magiara. La gente è affamata di cultura, il teatro è una pratica comune e consueta, da esercitare molti giorni alla settimana, le persone si innamorano dei testi, li seguono, tornano più volte a vedere le stesse piece, ne imparano a memoria pezzi e stralci. Una passione smisurata.
Il Teatro Nazionale di Cluj ha una compagnia stabile composta da una quarantina di attori. Il sistema che gestisce le attività è assai curioso per un italiano: la nuova piece prodotta dal teatro, dopo il suo debutto, rimane in cartellone per pochi giorni per poi essere ripresa più volte nei mesi successivi ma mai per lunghe teniture, poche serate alla volta. Quindi ci si può imbattere in mesi dove oggi c'è Shakespeare, domani Moliere, a seguire Pirandello e infine Cechov. Ogni giorno uno spettacolo diverso: una goduria per un pubblico di appassionati, una bella sfida e fatica per gli attori ogni sera impegnati con importanti testi e messinscene.
All'interno del festival internazionale “Intalnirile International de la Cluj”, alla sesta edizione, quest'anno dal titolo “In cautarea Autorului” (In cerca d'autore), abbiamo scelto di portare alla luce due spettacoli, il “Mort et reincarnation en cow boy” di Rodrigo Garcia (qui è stato messo in scena anche il suo “Agamennon”) e il “Richard III will not take a place” di Matei Visniec, uno dei maggiori drammaturghi rumeni viventi (qualche anno fa vedemmo il suo “I cavalli alla finestra” messo in scena con successo dall'ITC San Lazzaro di Bologna).
Una decina d'anni fa abbiamo incontrato Rodrigo Garcia proprio a Sesto Fiorentino dove ha sede il Teatro della Limonaia, nel quale fu Barbara Nativi, la direttrice e regista purtroppo scomparsa prematuramente, a “scoprirlo”. In quell'occasione parlammo più del “suo” Atletico Madrid che di altro, lui argentino d'origine e spagnolo d'adozione, adesso alla direzione del Teatro Nazionale di Montpellier, contratto che scadrà a fine 2017 e già deciso che non gli sarà rinnovato. E' curioso, disponibile, cappello calato sulla testa o cappuccio, gli occhi veloci, parla un esperanto svelto e fruibile tra spagnolo, italiano, francese e inglese, beve solo acqua. In Italia fece scandalo la sua performance dove un astice veniva rosolato su una piastra e mangiato in diretta. Al festival “Contemporanea” di Prato, diretto allora come oggi da Edoardo Donatini, intervennero animalisti e carabinieri e sia l'autore che il direttore furono denunciati per maltrattamento ai danni di animali.
Il suo “Morte e reincarnazione di un cow boy”, che abbiamo visto in una delle ultime edizioni della Biennale veneziana nel suo adattamento originale, viene qui, dal regista rumeno Andrei Majeri, completamente stravolto, rivoluzionato (e non è che questo sia necessariamente un male): al posto dei due cow boy che giocano rabbiosi e violenti con pulcini e gatti, come nella versione al Teatro delle Tese all'Arsenale, il discorso è stato suddiviso in quattro attrici divenendo un vero e proprio inno al femminile gioioso, colorato, pop. Quattro donne, vagamente tarantiniane, una diversa dall'altra, vestite in giallo, blu, grigio e rosso, spicca per presenza fisica e scenica, voce e temperamento Sanziana Tarta, parlano di sé e dei problemi delle donne (è dura essere donna, ieri come oggi) giocando a biliardo (le palle in buca, metafora), tra birre e cactus, riducendo la poetica provocante e antisistema di Garcia ad una commedia inframezzata da canzoni godibili folkeggianti (potrebbe somigliare al “Due partite” di Cristina Comencini). Sono rock, toste e country queste donne che non vogliono cedere alla loro voglia di essere femmine e madri e ancor prima donne e persone, sono tutte wonderwoman nell'arena della vita, si fanno torere nel mezzo della corrida quotidiana, sono Charlie's Angels che rivendicano il loro ruolo nella società.
Il “Riccardo III” di Visniec, per la regia Razvan Muresan, è un affondare nelle viscere, nella ferita ancora aperta del comunismo, nelle imposizioni, nel controllo e nella censura della dittatura. Il teatro nel teatro, come nei “Sei personaggi in cerca d'autore”, fa vivere le figure d'inchiostro ideate dal drammaturgo in una sorta di sogno-incubo tra donne incinte, Stalin che appare come il padre di Amleto, ora comprensivo adesso punitivo, topi giganti. Nodo centrale è la libertà negata e la follia, baratro nel quale vengono spinti i pensatori autonomi, gli intellettuali non allineati al sistema che tutto sgranocchia e appiattisce in melma, in melassa, nella solita pappa uniformata. Non può esistere satira né critica e la tortura è la soluzione, la panacea a tutte le deviazioni dell'individuo che vuole rivendicare la sua unicità. I nove attori si muovono con millimetrica disinvoltura in un piccolo spazio, non lesinando forza, sudore, corse, gioco sporco, cuore, impegno. Gli attori, la miglior cosa vista a Cluj.
Tommaso Chimenti 12/10/2016
Nelle foto (dall'alto): Rodrigo Garcia, Matei Visniec, gli attori del "Riccardo III"