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Festival ContaminAzioni: "Radici" di Niccolò Matcovich

C’è un po’ del genio di Jon Fosse in questo sorprendente micro-dramma della solitudine: i non detti celati dietro a gusci di parole apparentemente vuote, l’uso della ripetizione quasi ossessiva (“Ti va un po’ di latte?”), il senso d’inquietudine e di ansia che serpeggia tra un silenzio e un sospiro. "Radici" di Niccolò Matcovich è un piccolo gioiello di scrittura che guarda più a certo teatro del Nord Europa che alla nostra drammaturgia. Ha battute rapide e brevissime che però rimangono sospese a lungo, come un canto lontano in una valle di desolazione e di morte.
Siamo in un imprecisato luogo di montagna, con la neve gelata che quasi ci soffia nelle ossa: il Ragazzo (Eugenio Mastrandrea) torna da un lungo viaggio e ad attenderlo davanti al camino c’è una Donna (Giulia Trippetta) distrutta dalla contamin3perdita, alle prese con la cura della fattoria e delle sue capre, stremata dal dolore, dall’attesa o forse dall’amore perduto. È rimasta sola (“Sono morti tutti”), è cambiata. Ha gli occhi spenti e vetrati da una patina di rimpianto, ma deve mostrarsi dura e risoluta. Lui sembra più entusiasta, ma presto l’atmosfera pesante della Montagna ne contagia i gesti e i pensieri, spingendolo al delirio e ad isterismi dettati dalla paura (“c’è una capra in casa, la sento muoversi”).
Chi sono queste due anime che si scrutano, sospirano, si fanno la guerra ma poi finiscono per sciogliersi in un bacio fugace? Una madre e un figlio? Due semplici amanti? Non lo sappiamo. Non lo sapremo. E qui sta il bello dell’operazione.
Un sussurro che lascia aperte mille porte, lasciandoci intravedere i fantasmi al di là della serratura ma senza permetterci di entrare definitivamente. Sarebbe, forse, meno intenso.
E invece il mistero alimenta la delicatezza di questo teatro coraggioso e marchiato a fondo dalla poetica dell’angoscia e della memoria che tenta di sopravvivere nelle fotografie (“Vuoi vedere le mie foto”? “No”) ma che, come ogni illusione del passato, serve solo ad accrescere il dolore.
Le musiche dei Mogwai contribuiscono ad aumentare l’inquietudine, la recitazione dei due protagonisti sfiora la perfezione.
"Radici" è un soffio di magia di cui sentiremo ancora parlare.

Simone Carella 03/10/2016

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