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“Ferro e Piuma”: padre e figlio divisi tra officina e palcoscenico

PRATO - "Questa mano può essere ferro o può essere piuma" dice Mario Brega in "Bianco, Rosso e Verdone". "Ferro e Piuma" è la storia di Massimiliano Galligani, nome lunghissimo per un corpo affusolato che sembra una fiammella che cerca il cielo. O meglio, un cerino, un fiammifero slanciato e sottile che tende al sole. Il Ferro come il materiale che ogni giorno tratta nella sua professione di fabbro, la Piuma invece è la leggerezza, la comicità, il teatro, l'arte. In lui convivono questi due aspetti che sembrano antitetici, la durezza e la battuta, il martello e l'incudine e la risata. Il Ferro che ti tiene pesantemente a terra e la Piuma che ti fa volare. Sul finire delle scuole elementari la professoressa faceva sempre la classica domanda: "Ma pesa di più un chilo di ferro o un chilo di piume?". E lì si capiva chi rispondeva con la pancia e l'istinto e chi con il cervello. Poi, alle scuole superiori, ci spiegarono anche il concetto di peso specifico, ma questo è un altro discorso. Il fabbro come quel quid che ti fa stare con i piedi per terra e non con la testa tra le nuvole. Il peso che ti tarpa le ali e ti tiene ancorato al suolo e la Piuma come elio dentro la mongolfiera per vedere il mondo dall'alto, scovare nuove forme, prendere tutto con più relatività e distacco. Si batte il ferro finché è caldo (non battere Tiziano però) mentre la risata è in levare. Ecco battere e levare è la vita di MG detto Il Gallino. Pratese, cinquanta candeline spente da poco, generoso sul palco e nella vita, galligani3.jpgocchi curiosi interessati che guizzano. Un fabbro te lo immagini come Thor, vichingo energumeno pieno di muscoli, di poche parole, accigliato e severo che brandisce minaccioso il martello perennemente in mano, un maniscalco che gorgoglia, brontola, grugnisce incomprensibile e rumina gutturalmente.

Un suo personaggio è il “Comico fragile” che, dall'aggettivo, sembra in contrasto e in antitesi con la rudezza dei polpastrelli, la ruvidità dei movimenti del fabbro. Se però scaviamo il fabbro è colui che modella e plasma la materia, crea, fa nascere; la Treccani ci dice anche “artefice, autore, creatore, ideatore, maestro”. Non di sola forza si nutre il nostro operaio specializzato. Forse sta qui il punto di contatto profondo con la risata, far sbocciare qualcosa che poco prima pareva impensabile, dare vita ad un nuovo oggetto come far emergere un sorriso dove prima stavano soltanto l'imbronciatura, il nervosismo della quotidianità, le piccole insoddisfazioni di fine giornata. Che poi se ci pensi il “negozio” del fabbro si chiama bottega come le scuole di recitazione più rinomate, come ad esempio quella celebre fiorentina di Gassman. Potremmo dire, giocando con le assonanze, che Galligani è un “fabbro ebbro”, quando è sul palcoscenico, nel senso di “eccitato, esaltato, in preda a una passione incontenibile, bramoso”. Che Ferro Battuto era un album di Franco Battiato.

Il dinoccolato Massimiliano-Galligani-bett-ONE-3-e1615225189942.jpgGalligani ha la grazia dello sconfitto (ricorda la comicità di Alessandro Paci e Andrea Muzzi per restare in terra toscana), l'eleganza del perdente senza lamentosità, il garbo del vinto senza piagnistei, l'antieroe per definizione. Galligani e le sue figure sono assolutamente underdog, sfavoriti in partenza, senza chance, ma, si sa, a volte Davide batte Golia. Quello che sì ti fa ridere ma anche esorcizzare l'amarezza, l'insofferenza, quell'essere sempre inadatto, l'inquietudine, il disagio provato da tutti noi in mille situazioni analoghe. Negli anni i suoi personaggi più riusciti hanno tutti avuto il comune denominatore della marginalità, “Supermax” un paladino delle cause perse, per prima la sua, il bambino sopra le righe “Michelino”, i Campioni del mondo di discipline inesistenti e improbabili, e poi “L'attore più tagliato di Hollywood” e ancora il dolcissimo “Comico Fragile” (che ci ricorda una ballata di De Andrè). Ed ecco il “Ventriloquo” che ovviamente non lo sa fare, “L'Uomo disperso di Chi l'ha visto” e il delizioso, e a tratti commovente, “Maestro Camarri”, un venditore di opere d'arte, o semplicemente croste senza valore, intendo a voler piazzare le sue chincaglierie, una sorta di Wanna Marchi al maschile. Ha lavorato per Sky e Italia Uno, per Rete 37, a Zelig, “Mai dire Lunedì”. Ha partecipato a pellicole di Ceccherini, “Lucignolo”, di Benigni, “Pinocchio”, o Virzì, “N, Io e Napoleone” e “Baci e Abbracci”. Ne ha fatta di strada il ciclista dello spot dell'Agip: “Tanto ti ripiglio. Ti ripiglio, ti ripiglio”, battuta che è diventata tormentone. Ne ha inseguiti e raggiunti di sogni. Il ciclismo la sua grande passione. Le salite non gli hanno fatto mai paura. E non ha avuto paura di sudare e sporcarsi le mani con questo “Ferro e Piuma” dove mette le mani in pasta della sua più recondita coscienza.

E' una seduta collettiva di psicoterapia (visto ad Officina Giovani a Prato; regia di Giacomo Bogani, prod. Inquanto Teatro) dove MG si mette a nudo, anzi si fa una vera e propria radiografia dell'anima e dei suoi dolori, un'autopsia a cuore aperto. E' una terapia questo sfogo bilanciato e in equilibrio tra il comico e il drammatico (può osare ancora di più, andare più a fondo, scavare ulteriormente), è traumatico e taumaturgico così come risulta catartico. E' la guerra atavica tra i padri e i figli, è uno scontro di ricerca d'accettazione, di costruzione della propria identità purtroppo minata da colui che avrebbe dovuto essere una guida e che invece, per mancanza di strumenti, si è rivelato un abisso impossibile da scalare, un muro di gomma dal quale essere costantemente respinto. Il figlio cercava disperatamente un abbraccio, un sorriso mentre dall'altra parte arrivavano soltanto rimproveri e sottolineature di mancanze. Al centro un grande ciocco di legno (di almeno trecento anni, appartenuto al padre come ogni oggetto in scena) con sopra un'incudine; Galligani ha in mano un martello, grembiule e guanti da saldatore e, con il fumo che esce dal fondo sembra proprio il Dio Efesto che forgiava le armi nella pancia del vulcano. Ci incamminiamo verso i suoi antri bui, della memoria, del ricordo, del trauma.

La narrazione (scritta insieme ad Andrea Falcone) è suddivisa inmaxresdefault.jpg cinque capitoli, come i giorni lavorativi della settimana: il lunedì dedicato all'infanzia, il martedì agli anni '90, il mercoledì al 2000, il giovedì al '10 e il venerdì ai giorni nostri, i cinque decenni dell'esistenza del monologhista. E nel suo incedere (accompagnato dalla chitarra dell'abilissimo Frank Cusumano) sentiamo, attraverso le sue parole, il nero pesto, l'olio bruciato e questo termine che ricorre infinite volte per sottolineare e rafforzare il concetto: sporco, che ritorna, che sembra lordarci senza salvezza, renderci lerci senza scampo e sembra di sentirne l'olezzo del ferro tra i denti, sul palato, o la polvere addosso che non accenna ad andarsene. Un mestiere imposto, che non ha mai digerito, che ha “ereditato come una malattia, come un virus”. E' un racconto onomatopeico, questo “battere, ribattere e ribadire” che scandisce, che borbotta, che dà i tempi. E' tenera la sua storia (“Ho sempre fatto una vita di serie b”) di bambino che ancora non sa cosa vorrà fare da grande ma che ha ben presente quel che non vorrà mai fare: “Io il fabbro non lo voglio fare” dice con fermezza. E più lo dice più finisce nel gorgo del senso di colpa per aiutare il padre dal quale non riceve mai un grazie ma soltanto insulti, lamentele, insoddisfazioni per i debiti di famiglia, e il ragazzo diventa sempre più invischiato nel dover fare qualcosa che lo fa star male, che non lo rende felice, anzi che lo svuota, lo snatura, lo priva di se stesso, lo inaridisce. E più vorrebbe allontanare da sé e dalla propria vita il ferro battuto e cercare la croccantezza delle battute comiche e più quell'odio si trasforma in professione che lo porta lontano dalla sua vera intima vocazione: far ridere.

Ci stringe il cuore questo bambino cresciuto in un piccolo comune (Usella, sopra Prato) nella Val di Bisenzio, un minuscolo paese di provincia rimasto immobile nei secoli con l'unico punto di riferimento di questo padre che gli inveiva contro, sempre di cattivo umore, burbero, arrabbiato e soprattutto “con i pantaloni sporchi”. Galligani vorrebbe cercare il sorriso e stemperare e sdrammatizzare ma l'emozione che crea e infonde è di rara potenza, il suo messaggio si fa universale. Un ragazzo che crescendo si rende conto di essere sempre più simile al padre, quello stesso genitore che gli ha tarpato le ali, che gli ha strappato i sogni, che ad ogni tentativo di emancipazione lo redarguisce dicendogli: “E invece tu farai il fabbro”, monito tra certezza e minaccia tenendo sempre ben teso il guinzaglio e il cappio. L'attore si sente braccato, in carcere, in prigione, un fine pena mai, recluso dentro un mondo che non ha scelto e dal quale è stato masticato, digerito, fagocitato, inghiottito: “Mi sentivo sempre più in croce e sempre più all'inferno”. E' Telemaco senza il ritorno riparatore e ristoratore di Ulisse, è Edipo senza il conforto di Laio. L'unica soluzione per liberarsi dal giogo è la morte del padre, una liberazione che lo farà stare ancora peggio perché si sentirà tremendamente in colpa perché adesso sta bene finalmente. Un padre che, tra l'altro, non gli ha mai pagato i contributi. Sembra di sentire la storia di Oliver Twist o del Charlie Chaplin di “Tempi moderni”. “Ferro e Piuma” è un Odi et amo perché si percepisce tanta abnegazione e senso del dovere per non deludere il padre, nel suo costante ricercare un segno d'approvazione, quel “bravo” che non arriverà mai, quella pacca sulla spalla sentendosi dire “andrà tutto bene” o “non ti preoccupare”, quella solidarietà e vicinanza e supporto che gli sono sempre mancati. Ci deve essere molto amore per riuscire a comporre questa lettera al padre che è una sorta di perdono, di ricongiungimento postumo, di pacificazione serena.

Tommaso Chimenti 01/04/2023

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