SIRACUSA – Due ore e quaranta il primo, due ore e mezza il secondo. Cinque ore in due giorni a sedere sulle pietre sacre. E se il teatro per alcuni è ancora considerato sofferenza (non lo dovrebbe essere mai), il dramma antico ha preso alla lettera tale regola e insegnamento. Si noleggiano i cuscini per stare minimamente più comodi sui sassi millenari. Certamente la durata e la magnificenza e la prosopopea e la grandeur e la maraviglia fanno parte del gioco che il pubblico si aspetta da Siracusa e che i registi chiamati in qualche modo sentono di dover rappresentare. Il gioco delle parti, certo. Il format e lo spazio dell'INDA si offre a grandi kolossal (oltre 5.000 i posti, portati a quasi 3.000 in questi tempi di distanziamento), anche oltre il Mito, un'arena da Colosseo che sfugge alla nuova fruibilità delle platee contemporanee. L'ars retorica la fa da padrona, la dilatazione delle scene è un sottofondo costante. Per togliere la polvere da questa storia maiuscola millenaria forse non bastano registi innovativi (spesso formalmente), i tempi sembrano essere maturi per una piccola rivoluzione che non sia soltanto tecnologica di fumi e raggi laser.
Due lavori, quelli proposti dal Dramma Antico diretto da Antonio Calbi (a proposito, è uscito il suo volume “Pietre d'Incanto” per VerbaVolant edizioni, assolutamente da leggere), “Coefore-Eumenidi” da Eschilo per la regia di Davide Livermore e “Baccanti” da Euripide a cura di Carlus Pedrissa fondatore de La Fura dels Baus, intimamente diversi tra loro per intenzione prima di tutto, per sfoggio in seconda battuta; se il primo è stato più ridondante nei suoi sottotesti e riferimenti, segni anche contrastanti, il secondo si prestava più facilmente a riempire di senso i movimenti, la corsa, lo slancio, la bagarre per un risultato più pieno e avvolgente quasi da concertone rock brutale e dirompente, d'intrattenimento puro. Livermore ha un'anima lirica mentre Pedrissa quella del punk catapultatore e distruttore di schemi preconfezionati. Nel confronto, che forse non ha senso fare ma l'alternanza delle due tragedie spinge anche in questa direzione, le “Baccanti” rianima, elettrizzano certe scene da grande Luna Park (gioioso e fanciullesco), ha un'ossatura circense che ci fa ten(d)ere il naso all'insù e goderci le gigantesche macchinerie tra Cirque du Soleil e Momix.
Per quanto riguarda “Coefore-Eumenidi” qualche dubbio è subito sorto dall'ambientazione anni '30-'40 con guardie “naziste” e un'auto che sembrava uscita da una pellicola gangster. La storia è nota: Oreste dopo dieci anni torna a casa e la madre Clitennestra (Laura Marinoni sempre una sicurezza; ci ha ricordato Pamela Villoresi), dopo aver ucciso il padre Agamennone, si è risposata con Egisto. Importante anche la figura di Elettra, sorella di Oreste, una Anna Della Rosa che sempre colora e dà vita a personaggi sussultanti. Praticamente un Amleto ante litteram con sprazzi di Ulisse. A caratterizzare in maniera imponente, quasi invadente e aggressiva per le retine, due forti elementi: una sorta di ponte distrutto sullo sfondo, nel quale molti hanno visto un riferimento al crollo del Ponte Morandi di Genova (Livermore dopotutto è direttore del Teatro Nazionale di Genova), e questa grande sfera, conturbante e accattivante ed eccentrica certo, che per tutta la durata ci inonda di immagini a 360 gradi, colori che accentrano la vista in quell'unico grande buco facendo passare in secondo piano la vicenda. Un occhio-bocca che sembra aprirsi su mondi alieni o è la Terra vista dallo spazio nella sua triste misera piccolezza, una sfera (vero e proprio personaggio-protagonista) che sembra sentire il climax e cambiare tonalità, avvertire la scena e mutare, cangiare camaleonticamente come essenza respirante, come essere vivente. Palla caduta anche come metafora di meteora catastrofica scesa a spezzare le fondamenta della nostra civiltà, a spazzarci via. E' per questo che non troviamo parallelismi con il magma più profondo della recita: qui un Oreste cowboy (un Giuseppe Sartori sempre tonico e fiero, belva sensibile da palcoscenico) viene a portare giustizia attraverso la vendetta, a ripristinare l'ordine lordato col sangue con lo spargimento di altro sangue, mentre la sfera-boccia da pesci (suggestioni sospese tra “Ghostbusters” e “Stranger Things”) appare un agente alieno che arriva a distruggerci mostrandoci la nostra incapacità di autoregolarci. Questo globo appare come la Storia dell'Umanità contratta e riassunta, milioni di anni in immagini in time lapse, che continua e prosegue il proprio viaggio e la propria corsa infischiandosene dell'odio e della morte che l'uomo, questo suo piccolo abitante, immette senza sosta. E poi ecco le Erinni in stile Priscilla Regina del deserto o un Apollo-007, cori morriconiani, un Egisto moribondo che ricorda Gheddafi o Mussolini o ancora meglio Ceausescu dopo l'esecuzione, Atena alla balaustra che pare in Piazza Venezia. Sul finale abbiamo delle riserve perché sulle note di “Heroes” di David Bowie (ci sta sempre bene ma ultimamente in teatro è un po' abusata) scorrono immagini “facili” dal G8 genovese alla Costa Concordia, da Capaci ad Ustica, dai campi di concentramento a Peppino Impastato e non riusciamo a capire se l'intento è spronarci ad essere Oreste (“we can be Heroes just for one day”) vendicando i mali del mondo con la stessa violenza. Drammi nazional-popolari miscelati ad hoc non possono che far scattare il brivido.
Certamente l'impianto monstre delle “Baccanti” non può non colpire, non lasciano indifferenti queste grandi macchinerie (cifra e marchio di fabbrica de La Fura catalana) posizionate nello spazio immenso e profondo dell'agorà recitativa siracusana: un grande uomo movimentato da una gru come un Pinocchio dal suo burattinaio, una testa gigantesca di gabbie, un demonio cornuto a grandezza siderale, il pavimento segnato dall'albero genealogico, da Zeus a Dioniso, come legenda per non confonderci durante la narrazione: utile e didascalico. Non mancheranno le corse, le urla e i fumi come il dionisiaco panorama narrativo prevede in una dinamicità che sfrutta anche le gradinate e soprattutto le altezze con architetture di corpi trattenuti in aria, impalcature di braccia e gambe appese in acrobatiche posizioni. La struttura ci ha portato dentro atmosfere luciferine con i barili tambureggianti e guerreschi in stile Stomp. I costumi sono tra il futurista e “Primo Re” e Dioniso è una Lucia Lavia, qui giustamente posseduta e forsennata, nata per la scena e che si esalta in un ruolo congeniale dove può tirar fuori sia doti recitative che la consueta forza espressiva, il carisma da pasionaria che tiene e trattiene migliaia di persone avvinghiate e rapite. Parte “La stagione dell'amore” che innesca l'applauso-tributo a Franco Battiato, artista siciliano e globale al contempo. Si distinguono Antonello Fassari in Tiresia, attore di razza, Linda Gennari in Agave, sempre combattente e potente nelle sue performance, Stefano Santospago in Cadmo, voce profonda e presenza di peso. Ci sono anche inserti hip hop (Domenico Lamparelli sugli scudi) a svecchiare ulteriormente il formato classicheggiante. Qui lo scontro è tra Dionisa, che porta costumi libertini (e libera le donne dal giogo maschile emancipandole, attuale) e Penteo censore destrorso voyeur che vorrebbe vietare pubblicamente quello che desidererebbe fare di nascosto per una doppia morale ipocrita (il “si fa ma non si dice”). “Baccanti” risulta più fluido ed energico, complessivamente una festa pulsante.
Tommaso Chimenti 19/07/2021