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Camille Claudel rivive attraverso le parole di Dacia Maraini

Il volto di Dacia Maraini è solo degli occhi, innesti di un globo terrestre fitto di acqua e delle terre emerse su cui li ha posati; pensa con le sue pupille quando dice del teatro che è pozzo oscuro collegato al cielo, ché al cielo le ha rivolte impregnandole del colore sufficiente a imbastire i ricordi.
A Roma, lungo Vicolo dei Due Macelli ha i passi metodici della puntualità, quando siede sulla poltrona del Teatro Due, dove il vicolo ristagna, lo fa dentro alle parole di chi attende le sue e indugia al centro della sala.
Nel 1995 Camille Claudel, una erinni del Novecento che modellò la sua furia sul marmo, un cognome affermato non dalle sue mani ma dallo scrittore francese Paul che le è fratello e un'ombra epigona del maestro Auguste Rodin, riprende fiato nei caratteri screziati di Dacia Maraini, ingurgitati dalla trachea di Mariangela D'Abbraccio.
Camille è il riso amaro dei suoi nervi, una vertigine di libertà che precipita gli altri: una madre medievale, un padre distratto dalla vecchiaia, un amante modellato sul suo corpo e scolpito a casa di un'altra. Questo anelare l'esistenza Mariangela D'Abbraccio lo tramuta nella masticazione compulsiva delle parole, a tratti la lettura arriva prima della pronuncia, come accade ai pensieri dei nevrotici; e Camille nevrotica lo diventa.
L'attrice è voce sola sul palco ma è almeno tre voci del testo, modulazione di un esprimersi che pare un viaggio nei cimeli affastellati della scultrice, le parole si rompono e sono la terraglia che rimane dei bronzi mandati in pezzi.
Dacia Maraini costruisce ventri piatti alle sue "personagge", non figliano, come sono in grado persino le cagne, perché in esse il processo evolutivo è fermo alla propria identità e coscienza: Camille ha tre voci, una ha perduto la mano che serrava quella della madre, un'altra è dei toni sommessi della cedizione a un uomo, l'ultima si scora nella consapevolezza della propria carne marcescente e abbaia.
È di un fascio abbacinante la luce abbattuta sulla teatrante, oltre la quarta parete la vista vorrebbe indagare il buio per trovare una fenditura dove una donna affamata dall'esistere possa respirare e mangiare la vita che dovrebbe garantirsi a chiunque.
Il cortile del teatro si presta alle attese come Roma quando concilia la mitezza dell'inverno ai suoi isterismi, si può riposare l'affanno del cuore per non arrivare trafelati a un incontro: Dacia Maraini cerca le mani se non le si porgono e ringrazia l'età di chi crede di abbracciare la Storia, abbracciandola.


Francesca Pierri 18/03/2016

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