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A Terni il teatro non in teatro

TERNI – Al di là dell'inconveniente d'opportunità legato alla piece “Schonheitsabend” e dei loro “atti osceni in luogo pubblico”, in teatro, sul palco, appunto, il Terni Festival (16-25 settembre) è una bella fucina di idee, un Caos (il nome anche del luogo dove si svolge la rassegna, un parco ex Acciaierie Siri, con annessi locali, ampi spazi, il Teatro Secci da trecento posti, con boschetto, ludoteca, ristorante) fervido dove si sviluppano concetti e mostre e dove sperimentare è non solo possibile ma anche auspicabile. Abbiamo già parlato della bella idea del pianista in vetrina per dieci ore consecutive in un negozio del centro per una settimana. Qui sottolineeremo a flash, a stralci, a lampi, altri innesti, altre visioni, altri passaggi. Partiamo dal teatro quando il teatro non c'è, soprattutto come luogo-contenitore. Due momenti hanno attirato la nostra attenzione ma, seppur la qualità del progetto fosse valida e certa, in entrambi è mancato un qualcosa, un quid, lasciandoci ad un palmo di distanza dalla piena soddisfazione.
L'apprezzata compagnia svizzera Trickster con il loro “Twilight” ci ha condotto in una specie di bunker sottoterra. Venti persone, carbonari, rifugiati silenziosi, in attesa nelle nostre catacombe. Come Hansel e Gretel, come Anna Frank. Rumori di terni3automobili che sfrecciavano in superficie, attorno cemento e tante lucine ad intermittenza in alto e lampade dai fili aggrovigliati sul pavimento. L'esile comitiva del pubblico si è guardata molto negli occhi senza trovare un perché forte a quello stare se non luci pseudostroboscopiche (era utile e necessaria un'avvertenza per eventuali persone affette da epilessia) e suoni che dopo alcune reiterazioni hanno creato un tappeto sonoro consueto e accettato, senza scossoni né sussulti. E' mancato un passaggio, fondamentale, un'incursione, un cambio di status, un'invenzione attoriale (non c'erano performer, manca l'umano), ma anche semplici incastri ed escamotage per far scatenare e scaturire relazioni e parole tra i presenti. Ognuno è rimasto in attesa, nel proprio guscio senza mischiarsi: troppo poco per essere esperienziale, troppo poco per essere teatro. Attendendo l'arrivo del Messia, che non arriverà. Aspettando Godot.
Una bella dose di aspettativa e curiosità racchiudeva anche il “Todo lo que està a mi lado” di Fernando Rubio. L'idea è suggestiva e potente. Pochi eletti, gruppi di sette persone, per una piece collettiva e singola allo stesso tempo. All'interno di un parco archeologico (Carsulae, da visitare), passando da colonnati e chiese in pietra, strade levigate secolari e archi pesanti e possenti, sette letti candidi a formare un cerchio, vicini e distanti allo stesso tempo, so far so close. Sotto le coperte sette attrici. Sette spose per sette fratelli. Infilarsi sotto il piumone e, vicinissimo, sentire un racconto universale che ci parla di infanzia, di passaggi, di momenti, di consapevolezza, di sogno. Alcuni limiti però hanno trattenuto la piece in una parentesi: i sette racconti erano lo stesso racconto, mentre sarebbe stato bello potersi scambiare, con gli altri partecipanti, impressioni differenti sui diversi temi che ci erano stati assegnati casualmente e trovare vicinanze e attinenze alla propria biografia trovando coincidenze. Sarebbe stato interessante se le attrici avessero avuto un canovaccio ma anche che gli spettatori, in questo rapporto uno ad uno, avessero potuto parlare, scambiare, raccontare a loro volta, interagire, cosa invece terni2vietata, facendo così diventare un possibile dialogo un monologo. Forse anche il luogo doveva essere in accordo con il tema e con la condizione: incontro vis a vis, tete a tete, parole soffuse, ma dette all'aperto e con accanto altri letti, altri spettatori, altre attrici. Un po' più d'intimità non avrebbe guastato.
Il circo, con il suo tendone cadente come salice piangente, i suoi colori vivaci e sbiaditi insieme, quella sabbia a terra, quell'odore rancido di vita vissuta e sudore, ha in sé malinconia a chili, secchiate di mestizia, amarezza a litri di lacrime, metri d'afflizione. Il Circo Ronaldo, in “Fidelis fortibus”, è tutto questo e ancora di più, se possibile. Né Ronaldo il centravanti brasiliano, né Ronaldo l'asso portoghese ma un povero circense che si guarda attorno sconsolato urlando il suo dolore: “Tutta la mia famiglia è morta”. Infatti attorno a lui cumuli di sabbia con croci annesse. Il circo è morto, è rimasto solo, abbandonato. Non sa più chi è. E allora, come rievocazione, seduta spiritica o transfert (come Psycho con la madre), tenta di riprodurre gli stessi esercizi, con fortune alterne nella sua sbadataggine e (finta) cialtroneria, nei quali erano campioni i suoi compagni di viaggio ora defunti. L'atmosfera è da Santa muerte messicana dove il sacro si mischia col profano, le tinte forti, il cinismo e il sangue, il declino e il delirio. Chiama a rapporto tutti i suoi ex amici di una vita, una vita passata in gruppo, in comunione e in comunanza, una vita girovaga e confusionaria, piena di gente, di parole, di occhi e bocche. Adesso è tutto solitario e depresso, silenzioso e vuoto, senza “famiglia”, senza affetti. Un circo tutto per lui, come un torero senza toro. E' proprio tentando di mettere in scena gli atteggiamenti e le doti, le prodezze e le bravure di ognuno degli scomparsi che, catarticamente, riesce a superare la crisi esistenziale riconoscendosi come individuo al di là del tutto che lo contiene. “Non è comico”, continua a ripetere il mantra. Qui c'è tutta l'anima corrosa, lacerata, unta, incompresa del circo.

Tommaso Chimenti 27/09/2016

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