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Diari calitrani. Sponz Fest 2016 vol. 2: musica, musicanti e Gianni Morandi

“Sulle strade, mulinate dalle ruote dei carri e trebbiate dai ferri dei cavalli, la crosta della massicciata andò in frantumi e creò la polvere. Le minime cose animate sollevavano questa polvere per aria: gli uomini camminando sollevavano nuvolette che s’alzavano fino alla loro cintola; i carri, nuvole più dense che raggiungevano le cime delle siepi; le automobili, nuvoloni che oscuravano il sole. E a tutta questa polvere occorreva molto tempo per cadere e riposare” (John Steinbeck, Furore)

Da Sicuranza, in barberìa, si canta e ci si innamora. Si ricordano le storie di paese, di musica e musicanti. Malelingue, amori disgraziati o malandati, vite smandrappate. Figure femminili per lo più, raccontate in sonetto tra mantici, corde e due sorsi di vino. Giovani e vecchi con lo stesso animo, le rughe sul viso e le note nel cuore. Passione, amore per la propria radice, rimasta intatta in tempi così votati al commercio. “L’amore è ‘na catena che non si spezza”, parla così lo Sponz Fest 2016.
La radice è la storia ma anche la lingua, pastosa e arrovellata, che ha già una sua musica. “La lingua è una fede, e la custodiscono i suoi apostrofi” dice Sicuranza. La custodia ha i suoi modi e i suoi luoghi: una è la via orale, che trova simbolo maximo sotto il portico del barbiere cantatore, l’altra è quella più colta, scritta, del Centro Studi Calitrani – un po’ come nel Cinquecento – dove nel pomeriggio del 26 agosto si parla di proverbi antichi e contadini, della vicinanza – nemmeno così incredibile – tra i detti di Petronio, Esiodo, Catone il Censore e i proverbi di paese. È l’antico vero, è un’operazione di memoria che in nessun altro luogo, forse, come allo Sponz Fest, viene realizzata con così tanta accortezza. Non è campanilismo, è tradizione. Non quella irpina, quella di tutti noi.
Rimanendo in seno alla tradizione, baciati dal tramonto del Borgo Castello i ragazzi di Calitri diventano corifei in doppio petto per il laboratorio sull’Antigone del Teatro delle Albe. Cori e dialoghi che procedono per stazioni, piccole, di rivoluzione, fino a raggiungere il punto più alto della pietra, dove il climax si completa nell’invocazione a Dioniso. Il gesto di Antigone segna l’anarchia, femmina come la polvere. Soffrilo e poi impara, Creonte. Lo statuto della tragedia si compie, ed è profondamente importante la partecipazione di adolescenti alla performance, di spessore artistico e umano grazie alla direzione sontuosa di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Una perla rara a metà tra sperimentazione e catarsi.
Il sole è andato a dormire dietro la collina, e non resta che prepararsi alla sponza-notte. Sette bande, un ballodromo in legno – vera e propria pista da ballo – un ranch di piazza per sponzare come baccalà. È il motto del festival, è l’embrione da cui tutto è nato, con il pensiero a quegli sposalizi in cui Capossela si infilava come accappante, senza più uscirne. Quatriglie, cinquiglie, sestiglie, batticulo, polka, mazurka, walzer, taranta e tarantella. È il ricreo, è transustanziazione pagana della carne che si fa vino e rinasce dalla polvere. Sera di balera dove la dama si cambia a ogni passo e al grido di “ballé, danzé, all’incontré”.
“Giova’, dove vai?” “Indovina, a cicoria”. I paesani si prendono in giro, soprattutto davanti al bar, dove spesso stanno il padrone di casa Guarramon, Cinaski e Marco Cervetti detto Il Gigante. Torna ancora il mantra culinario: cannazze, cannazze, cannazze. La preparazione al concerto nella Sponz A-rena è lenta e scaldata da un sole che picchia forte. “Dieci portate nel prezzo di una” è il sunto e il gusto della serata, che sussume il concetto di “specialità”. Dopo aver ricordato le vittime del sisma in centro Italia, Capossela sul palco diventa prima demone meridiano con “La bestia nel grano” e poi si fa rapsodo-trovatore per narrare le storie di confine. L’ensemble di musici è come di consueto poderoso: i cubba cubba di Tricarico, i Mariachi Mezcal, i Mariachi Tres Rosas – composizione tutta calitrana – vengono rinforzati dai cori e dalla chitarra combat di Giovanna Marini, commovente per energia e precisione nonostante l’età (è stata, peraltro, una delle prime promotrici di “Canzoni della Cupa”), e da Mario Brunello, potente e ammaliante col suo violoncello michelangiolesco (da brividi l’esecuzione di “Il lamento dei mendicanti”). È un concerto folk poco rassicurante, come vuole la marca più dylaniana del termine. A tratti oscuro e cupo, atto a celebrare “La notte di San Giovanni” o il carnevale di “Componidori”, “che tutti gli anni deve crepare”, ma che può anche sprofondare nel blues di “Scorza di mulo”. Capossela dedica uno spazio ampio al cantore della fame Matteo Salvatore, mettendo in sequenza tutte le riletture presenti nel disco. Spazio poi ai “Sonetti”, che a volte non sono d’amore ma di ingiuria e scherno, come “Faccia di corno”. L’atmosfera da sposalizio non può mancare, con la Banda della Posta a concertare su “Franceschina la Calitrana” e “Al veglione”, suonata in presenza solenne di Ciccillo, che saluta alacremente il pubblico con un bel “salutam’ a ssorreta”.
Micah P. Hinson se n’era già andato a Roma, ma è ritornato per suonare “This land is your land” di Woodie Guthrie con Giovanna Marini. Per questo momento, chi non c’era se ne pentirà. Hinson dà il cambio a Gianni Morandi, super ospite annunciato in pompa magna. Nazional-popolare per eccellenza, 72 primavere già contate e nemmeno un po’ di sporcizia nelle corde vocali, seicento canzoni all’attivo, è uno di quei modelli che ha accompagnato chi partiva per la frontiera. L’effetto dell’incontro è prorompente, perché il pubblico sa intonare allo stesso modo – a squarciagola – sia “In ginocchio da te” che “La padrona mia” e “Zompa la Rondinella”, cantata in trio con Giovanna Marini. Tre pezzi, diversissimi tra loro, di storia della musica italiana, che si incrociano e si ri-conoscono nel sostenere la tradizione.
Eccoci al nodo: è tradizione. Non quella irpina, quella di tutti noi. “È l’ultra-locale”, riflette sorridendo Capossela, “che diventa ultra-universale ”. È, probabilmente, la vittoria di un’idea, di un progetto pluridecennale in forma di musica e letteratura. Se con “Marinai, profeti e balene” e “Tefteri” l’autore pangermanico era partito per la sua personale Odissea, “Canzoni della Cupa” forse rappresenta il nostos, il ritorno a quell’Itaca “portabile” fatta di lingua e di personaggi mitici e profetici. Qualcuno era partito sulla ferrovia, come il padre, a cui Vinicio dedica “Il treno” con somma commozione, chiedendo a un pubblico irrequieto di non rovinare l’atmosfera per quisquiglie da sbronza triste e, francamente, immotivata. Sono passate quattro ore, è tempo di far volare ancora “La Golondrina” e di commuoversi con “Ovunque proteggi” e una poesia di Cinaski. La nottata si chiude con i Dyables de l’Onyar a mettere a ferro e fuoco Calitri come fosse un girone dantesco, “antico qui dannato tra gli inferi dei bar”.
Lo Sponz Fest è la festa del rientro a casa, un abbraccio lungo una settimana che grazie all’estro e all’unicità del suo ideatore si sta trasformando in un’icona precisa per il recupero del popolare. Un’epopea che si fa mito, il più bello spettacolo esistente secondo Sergio Leone, la cui aura spesso ricorre e si rincorre tra bar di legno, carni fumanti all’aperto, cavalli, spighe di grano e Polvere. Calitri-Tucson, Arizona.

Video
Canti in barberia da Sicuranza/1: https://youtu.be/kLmTEFs1L9s
Canti in barberia da Sicuranza/2: https://youtu.be/7Jmp4R9fzxw
Vinicio Capossela, Che coss'è l'amor medley: https://youtu.be/rddqr-xtxBI
Vinicio Capossela, Ovunque proteggi: https://youtu.be/W3vUSj4btAs
Vinicio Capossela e Gianni Morandi allo Sponz Fest: https://youtu.be/SvnW8Zlz7_A



 

 

Daniele Sidonio 31/08/2016

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