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Sarah Kane, il mito, gli anni Settanta: Recensito incontra Walter Pagliaro

Regista navigato, figlio della rivoluzione culturale anni Settanta e degli insegnamenti di un maestro come Giorgio Strelher, dal 20 al 25 ottobre Walter Pagliaro porterà al Teatro Palladium Psicosi delle 4.48, opera ultima della drammaturga inglese Sarah Kane, un testo che privilegia il testo e grida il dolore di un'artista fuori dal giardino delle convenzioni. Noi di Recensito lo abbiamo raggiunto al telefono in un piovoso pomeriggio di ottobre per parlare del suo allestimento e del ruolo che il teatro aveva, e che oggi non ha.

Cominciamo da Sarah Kane, che vedeva il teatro come mezzo di provocazione anche forte, violenta. È questo il lato dell'artista inglese che l'ha spinta a portare in scena prima Fedra's Love e poi Psicosi delle 4.48?
"Senz'altro questo. Io non direi che il suo è un teatro violento, ma che racconta la violenza della società, e non esita a usare forme grottesche per la sua denuncia. È interessante il cammino semantico delle sue opere; lei ha cominciato con Blasted, una drammaturgia che aveva ancora un dramatis personae, sufficientemente naturalistica, diciamo. Poi pian piano il dramatis personae si è assottigliato e i personaggi sono diventati lettere dell'alfabeto (in Crave 1998, ndr) e siamo arrivati a Psicosi, in cui i personaggi non ci sono più. Mi ha appassionato l'evoluzione drammaturgica del suo teatro, e quindi anche un possibile sguardo futuro. Che cosa avrebbe mai potuto fare ancora? Come sarebbe andata avanti la sua drammaturgia? Per questo le ho dedicato molto tempo e molte energie. Ho lavorato anche con gli allievi dell'Accademia "Silvio D'Amico" su Sarah Kane, anche perché i giovani stabiliscono subito un contatto sentimentale con questa creatura. Psicosi, peraltro, è un testo bellissimo proprio dal punto di vista della parola, e questa è un'altra cosa che mi ha spinto ad occuparmene. Questa "sinfonia per uno strumento solo" che lei ha inventato – in cui la parola diventa una serie di strumenti musicali che vengono fuori da una voce sola – mi ha davvero entusiasmato nel lavoro."

Si tratta ovviamente di opere dalla vastissima possibilità di interpretazione e di analisi critica. Ecco, anche in riferimento al fatto che non ci sono personaggi, che strumenti ha utilizzato per dialogare con il testo della Kane?
"Guardi, io ho intanto un atteggiamento di totale fiducia nella parola. Per me, la parola resta la strada maestra del teatro ed è questo che ho cercato di esaltare. E poi la fiducia totale che ho nel testo: quello che tento di restituire agli spettatori è il testo, senza costruirci sopra chissà quali fantasie più o meno gratificanti per me, non so se mi spiego. Ho voluto restituire la nudità della parola e la fiducia totale nel fatto che essa possa arrivare alla sensibilità degli esseri umani. Il nostro è uno spettacolo semplice: c'è una persona che sussurra sul letto come fosse una malata – senza identificazioni con la Kane – o un qualunque essere umano che in realtà patisca la solitudine e l'iniquità di questa società. Ho cercato di rendere metaforico il testo, non naturalistico. Come una grande metafora della sofferenza umana e anche della fiducia nella comunicazione, perché trovo che questa sia anche un'opera di fiducia proprio nel teatro e nella sua capacità di parlare alla gente, di comunicare sensazioni, emozioni, concetti. Da questo testo viene fuori l'incapacità della società di comprendere le ragioni della malattia interiore di un essere umano. Non parliamo di una società di un terzo o quarto mondo, ma ci si domanda come mai una società così evoluta ed emancipata – come quella inglese della Kane – con medici bravissimi, non sia stata in grado di capire che i suoi problemi non potevano essere curati con i farmaci, ma in un altro modo. Questo è un fatto abbastanza importante: restituire la drammaticità della solitudine dell'essere umano davanti all'impreparazione scientifica."

Nelle note di regia cita la frase di Artaud "Impazzisci e muori o diventa equilibrato e malsano", che a me ha fatto venire in mente una frase con cui presentava il teatro della crudeltà: "Il teatro non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrapresentabile". Mi sembra che quanto ha appena detto si inserisca tra queste due espressioni.
"Il grido di dolore della Kane è che in questa società, se ti adegui alla malvagità, alla confusione, al pressapochismo, alla superficilità, all'insensibilità, allora riesci a sopravvivere perché rientri in un branco che è in grado di proteggerti e di dispensarti prebende di qualunque tipo. Appena tu non sei allineato, allora sei troppo solo per sopravvivere. Quindi è un problema enorme, e io credo che ognuno di noi, ciascuno nel proprio mondo, possa francamente appurarlo. Finchè stai tranquillo dentro questo magma, tutto sommato qualcosa riesci ad arronzare, ma appena cominci a lamentarti, in qualche modo o ti emarginano, o ti fanno fuori, o ti fanno pagare un prezzo elevatissimo che non sei in grado di ammortizzare: o stai dentro quelle regole, o sei fottuto."

È quella che Pasolini chiamava aculturazione, un processo di omologazione che sembra inarrestabile.
"Esatto, certo. È questo il messaggio drammatico che viene fuori da queste cose."

Lei fa parte di quella generazione che ha vissuto, da protagonista, tutto il fermento culturale degli anni Settanta. Che teatro era rispetto a quello di oggi?
"Un teatro decisamente migliore. C'era grande fiducia nell'arte, la società era ancora in grado di coltivare dei sogni, e tutto questo per il teatrante significava avere un aggancio fantastico per progettare. Si credeva ancora che il teatro potesse in qualche modo incidere nel tessuto sociale. Negli anni Settanta c'è stata la grande epopea del decentramento e della sperimentazione: personalità influenti, artisti straordinari che hanno rotto gli schemi. Poi tutto questo è stato riassorbito, così come tutta la società italiana, nel benpensantismo, e ha sottratto coraggio. Anche il teatro innovativo di oggi è abbastanza autoreferenziale. Ci sono cose belle e ingegnose, ma nutrono solo la consapevolezza di chi le fa, non incidono nel tessuto sociale. Molto belle anche dal punto di vista estetico-formale, ma alla fine "sì certo abbiamo apprezzato lo spettacolo della Societas Raffaello Sanzo o di altri", ma non senti più quell'impatto forte, energico, che il teatro aveva in quegli anni. Per carità, poi ben vengano queste cose e speriamo che ce ne siano sempre più."

C'è stato un cambiamento anche degli spettatori evidentemente.
"Sì, certo. Il teatro negli anni Settanta aveva una forza anche politica molto energica, mentre oggi non ne ha. Nella peggiore delle ipotesi è sollazzamento, diversivo. Nella migliore è sperimentazione altissima, sofisticata, quasi irraggiungibile per un pubblico normale. E poi il grande pubblico che fa? È disorientato. O ci sono delle schifezze o delle cose prelibatissime per addetti ai lavori e conoscitori. Ciò non accade negli altri paese, dove c'è un teatro giustamente innovativo e di rottura, ma se vai alla Comédie Française senti Molière in alessandrini. Poi dall'altra parte ci sono quelli che fanno Molière rompendo il linguaggio e tutto il resto, ma le due cose ci sono, mentre qui siamo o allo spettacolo ridanciano che deve fare necessariamente incasso oppure a cose che fanno parte di circuiti festivalieri internazionali – per carità, magari ce ne fossero – ma il tessuto, la gente, la società, la comunità?"

Mancano dei riferimenti?
"Esatto. Ci hanno spazzato via tutto. Non solo il teatro di repertorio che faceva Giorgio Strelher, che è stato il mio maestro, ma anche riletture importanti di Goldoni, Pirandello, Ibsen, Massimo Castri che rileggeva il teatro borhgese inserendolo in una critica fortissima alla società borhgese. Oggi tutto questo non c'è più proprio. Ci sono solo cose che deliziano i palati avvezzi, raffinati, che conoscono e hanno visto tutto. E dopo? Questo è il problema. Ecco perché Sarah Kane: la parola, il testo, la gente ascolti, senta e si faccia delle idee di che cos'era la protesta di una scrittrice degli anni duemila."

È un teatro che porta a una riflessione che oggi nei teatri non avviene.
"No, perché da una parte c'è la cialtroneria di dire "no questa è roba vecchia e noi siamo per il teatro del dopodomani" – per carità, tutti dobbiamo essere del teatro del dopodomani (ride, ndr) – dall'altra ci sono invece quelli che "no il pubblico non viene per cui dobbiamo mettere dentro Sabrina Ferilli". Siamo a questi due opposti. Un sano teatro di repertorio dell'establishment, del teatro pubblico, dov'è? Il teatro pubblico dov'è oggi? Non si capisce più niente."

A proposito di repertorio, lei ha spesso messo in scena episodi della classicità: Fedra, Euripide, Seneca, Sofocle. C'è un motivo particolare? L'idea è che questo tipo di produzione, per i temi e la sensibilità che sprigiona, sia tremendamente attuale.
"Totalmente attuale. La sapienza di scrittura che questi avevano è incredibile. Siccome era un teatro seminale per gli spettatori, venivano posti tutti i problemi fondamentali dell'uomo: l'amore, la morte, la guerra, l'ingiustizia, la democrazia, il governo. Ogni testo affrontava in maniera diversa questi temi affinché i cittadini si confrontassero, attraverso la rilettura del mito, con quelli che erano i problemi dell'oggi loro. Avevano una tale forza che resta intatta oggi. Guardi, io in questi mesi mi sto occupando del Teatro Greco di Siracusa, dove vengono seimila spettatori che restano in silenzio ad ascoltare Sofocle, Euripide o Seneca: ci saranno delle ragioni. E poi questi sono testi talmente forti che reggono anche qualunque contaminazione contemporanea, perché i contenuti sono così monolitici che si può fare anche tutto ipermoderno, ma arrivano ugualmente. Forti, importanti."

Vorrei chiudere con una questione molto recente: Stefano Benni ha rifiutato il premio De Sica in segno di protesta contro i continui tagli alla cultura da parte del governo. Lei in che posizione si pone riguardo a questo aspetto?
"Io penso che un problema di questo nuovo regolamento del teatro sia che non si può sempre legiferare a favore degli organismi più importanti, dimenticando l'energia vitale dei piccoli gruppi che hanno portato avanti le idee degli ultimi trent'anni. Se si penalizza quel tipo di realtà perché non ce la può fare economicamente ed organizzativamente, allora c'è un disegno di eliminare come inutili tutte queste energie e puntare ad altro. In questo momento c'è grande fermento, vanno avanti proteste anche legali – con avvocati di mezzo – per protestare contro la creazione di iniquità che devono essere affrontate."

Daniele Sidonio 11/10/2015

La solitudine del reporter: l'Auditorium espone le foto di Walter Bonatti

WALTER BONATTI. FOTOGRAFIE DAI GRANDI SPAZI
A cura di Alessandra Mauro e Angelo Ponta
8 ottobre 2015 – 31 gennaio 2016
AuditoriumExpo - Auditorium Parco della Musica, Roma

Alpinista estremo prima, reporter con zaino in spalla e macchina fotografica in giro per il mondo poi. Segnata dalle letture giovanili di Salgari, Melville, Jack London, quella di Walter Bonatti si può riassumere come la biografia di un uomo che ha riversato tutte le sue energie nell'avventura.
Alla sua lunga attività fotografica è dedicata la mostra "Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi", ospitata nello spazio espositivo dell'Auditorium Parco della Musica di Roma fino al 31 gennaio 2016.
Nato a Bergamo nel 1930 e scomparso nel 2011, Bonatti si imporrà ben presto all'attenzione delle cronache per le sue imprese da scalatore dal Monte Bianco al K2, fino all'ultima straordinaria ascesa in solitaria del Cervino nel 1965.
Ma è con l'abbandono dell'alpinismo estremo che Bonatti deciderà di passare "dal verticale all'orizzontale", come ha spiegato in diverse interviste. Quelle che un tempo erano le pareti scoscese, spesso innevate, delle montagne da scalare, ruotano qui di 90° e si riversano nelle vastità dei paesaggi e della natura selvaggia cercata in tutto il mondo – dalla Patagonia all'Australia, dai deserti africani ai vulcani dell'Indonesia – e testimoniata dai suoi reportage per il settimanale "Epoca".
Proprio su queste fotografie a colori si concentra la mostra, e la scelta è assolutamente azzeccata. Sono immagini potenti, da un lato come testimonianza visiva della varietà e della complessità di un mondo lontano e distante da quell'Italia a cavallo fra anni '60 e '70, ma esemplificano anche, dall'altro lato, la curiosità infinita di un uomo grande che torna piccolo al cospetto della scala gigante della natura in cui è immerso.
Sì, perché caratteristica frequente nei suoi scatti – che spesso, grazie a un complesso e innovativo sistema di comandi, sono in realtà auto-scatti – è che è facile scorgere la sagoma più o meno immersa nello spazio dello stesso Bonatti, e la sua presenza assume un peso non trascurabile. Come scrive infatti Walter Guadagnini nel testo in catalogo, "Chi guarda quelle immagini è nella posizione di chi ha scattato la foto, è (o era) lì, assieme a lui, in quel momento e in quel luogo. Come se, nelle sue fotografie, Bonatti passasse costantemente dalla terza alla prima persona, e viceversa, da un lato mantenendo il privilegio di essere il testimone unico di determinate visioni, dall’altro trasformando il lettore in narratore delle sue imprese."
Le grandi foto a colori in mostra sono poi accompagnate da filmati d'epoca, ricostruzioni a fumetti (riprese dagli albi disegnati da Enea Riboldi e Pasquale del Vecchio) e alcuni oggetti personali, scarponi, casco e quella macchina da scrivere sui cui tasti Bonatti, assieme alle fotografie, immortalerà la sua avventura.

Marco Pacella 07/10/2015

Alla scoperta dei giovani chef emergenti: la determinazione e la “scintilla” di Nikita Sergeev

È il terzo finalista per il premio Miglior Chef Emergente, nell’ambito del Cooking for Art, ed ha già vinto il premio come Miglior Chef Emergente del centro, Nikita Sergeev ha soli ventisei anni ma è dotato di grande determinazione, passione e lucidità, che porta in tavola ogni giorno nel suo ristorante L’Arcade, a Porto San Giorgio. Ha la voce sicura quando risponde sui suoi progetti futuri e sulla sua idea di chef, dimostrando una grande padronanza di quello che dice e che fa, del resto l’esperienza non gli manca. Si è formato nella Scuola Internazionale di Cucina Italiana Alma, dopo la laurea in Scienze Politiche a Mosca, suo paese d’origine ma dopo anni trascorsi in Italia, ha eletto le Marche come sua casa. Per descriversi, ironicamente, rispondendo a una mia domanda autobiografica, ha utilizzato una metafora che richiama la figura del paguro di Dalì e ha parlato di “scintilla” come requisito necessario per lavorare nella sua brigata.

Cosa vuol dire oggi essere uno chef?
"Oggi per me essere chef vuol dire fare il cuoco senza tenere la testa fra le nuvole pensando che sei arrivato, quando ottieni la menzione di chef non vuol dire che sai tutto. Fare lo chef vuol dire innanzitutto far da mangiare buono e sano."

Nel tuo lavoro serve sempre una buona dose di creatività, tu come l’alimenti?
"Non mi fermo e penso: “Adesso devo cambiare il menù”, come ti può confermare qualsiasi chef, ma è un’esigenza che cresce con l’arrivo di una nuova stagione. Mano a mano che arriva una nuova verdura o una carne, un particolare ortaggio, cominci a pensare, è proprio una nostra malattia, ti viene voglia di tirare fuori qualcosa, ci sono piatti che pensi a lungo. Un piatto deve essere semplice, pulito, ed esprimere la gioia provata nel prepararlo."

Perché hai scelto le Marche per il tuo ristorante?
"Sono di origini moscovita, ma da sedici anni vivo in Italia, ho girato e studiato tanto, ma spesso stavo in questa provincia, qui mi sentivo a casa. Conosco bene il territorio e mi sento di appartenere qui. Ora stiamo valutando l’idea di allargarci un pochino o presentare una duplice proposta, una gourmet e una di alto livello ma comunque più popolare. È normale che a Milano avrei avuto maggiore clientela, forse non durante questo anno , con l’Expo che ha portato il disastro nei ristoranti milanesi, ma comunque in città si può contare sui turisti, però,per me,che faccio una cucina gourmet con 25 coperti a sera è sempre un piacere accogliere nell’arco della settimana sempre persone diverse. Quando durante un anno rivedi le stesse persone tre o quattro volte, vista la proposta del ristorante , del suo target, certo non è un ristorante che si può frequentare tutti i giorni, è una grande soddisfazione."

Se potessi trovare un piatto che sia il tuo autoritratto quale sceglieresti?
"Un piatto mio? Mi viene una cosa in mente ma non la posso dire…le lumache, perché mi piacciono come cibo, sono morbide, non piacciono a tutti e si nascono dentro la conchiglia." 

Già hai ottenuto un riconoscimento importante, miglior chef emergente del centro Italia, quali sono i progetti futuri?
"Vado avanti, quando ho partecipato io ci sono andato per vincere, non sapevo di vincere ma ci sono andato con quell’intenzione perché ho cercato di partecipare al meglio. Sono contento è un obiettivo bello e una bella visibilità , ho ottenuto un sostegno mediatico, un interesse in più ed è stato un modo per far vedere e far avvicinare alla mia cucina, e poi stare al fianco di Luigi Cremona è sempre un piacere. Ora ci sono molti progetti legati al Cooking for art, l’ 8 ottobre sarò a Firenze per premiazione Guida Espresso, e dopo qualche giorno ci sarà Cene a Quattro Mani a Roma. Vincere è un riconoscimento personale."

Qual è la prova del nove per uno chef?
"Oltre a saper cucinare bisogna essere in grado di gestire la comanda, capire come si gestisce la brigata, serve il carisma che nessuno può insegnarti, è un lavoro caratterialmente molto particolare, quando devo valutare un cuoco dal punto di vista tecnico per prenderlo a lavorare gli faccio fare un risotto semplicissimo o la parmigiana, perchè la preparazione ha tanti concetti dentro. Quando prendo qualcuno a lavorare non guardo come cucino, perché quello può impararlo ma deve avere la stessa scintilla che ho io per questo lavoro."

Gerarda Pinto 06/10/2015

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