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Sanremo 2016: signore e signori, il pasticcio dei voti

Serata cover, serata dei voti sporchi. Il terzo appuntamento con il Festival di Sanremo n. 66 è quello che celebra la musica italiana con venti pezzi nostrani rivisitati dai campioni in gara. Ma prima spazio ancora alla competizione dei giovani. Negli acuti grattati di Miele si sente tutta la sicilianità del brano "Mentre ti parlo", dolce nelle strofe e potente nel ritornello. Essere diretti da Vince Tempera non capita tutti i giorni. Francesco Gabbani ha questa fortuna ma non la sfrutta a dovere: la sua "Amen" riecheggia Battiato ma lo rimoderna nel ritmo e nei toni. Il testo, però, è banale quasi quanto il baffo hipster appena accennato. Michael Leonardi, uno dei figliocci di Caterina Caselli, ha un timbro particolare, mitteleuropeo, ed è più convincente del cantato biascicato di Alessandro Mahmoud, che però stravince la sfida e raggiunge in finale Chiara Dello Iacovo, Ermal Meta e Miele... anzi no. Nella votazione combinano un pastrocchio e il verdetto della prima sfida viene ribaltato dopo due ore: Francesco Gabbani si ritrova così catapultato nella sfida di venerdì, con relative polemiche e proteste da parte della concorrente siciliana.
Comincia la carrellata di cover. Noemi riaccende "Dedicato" di Loredana Bertè, togliendosi forse qualche sassolino dalla scarpa per le critiche della prima sera con una performance fiammante. I Dear Jack, elegantissimi, vanno paradossalmente meglio su "Un bacio a mezzanotte" del Quartetto Cetra che sul brano in gara e sfruttano a più non posso il brillante e fresco arrangiamento dell'orchestra. Spazio poi agli Zero Assoluto – nel frattempo Garko sfoggia ancora il suo inglese madrelingua con "hastax" invece di hashtag e improvvisa autoironia spiccia con risultati ovviamente scadenti – che trasformano Goldrake in una canzone d'amore: "invincibile sei perché actarus c'è che combatte con te dentro te" sussurrato all'orecchio di un'amante fa un certo effetto, ma manca "Alabarda spaziale!"... e Conti lo fa notare.
Giovanni Caccamo e Deborah Iurato vengono oscurati dalla geniale Virgina Raffaele nei panni rifatti di Donatella Versace (lo sketch dell'orecchio che si stacca è da scompisciarsi), poi azzardano "Amore senza fine" del compianto Pino Daniele. Negli azzardi si vince e si perde, loro vanno al verde rendendo una canzone d'autore una hit di Alexia – con tutto il rispetto per Alexia. Comunque trovate chi ha scelto il vestito della Iurato nella prima serata e tagliategli la testa.
"Tutt'al più" gli preferiamo Patty Pravo, che se la cava alla grandissima nel ruolo di se stessa, reinterpretando con l'aiuto di Fred De Palma un suo successo del 1970. Chapeau alla diva del Festival. Della cover di "A mano a mano" presentata da Alessio Bernabei non sentivamo il bisogno, soprattutto se gli antesignani sono Riccardo Cocciante – sì, l'ha scritta lui – e Rino Gaetano. Ma probabilmente non sentivamo il bisogno di Alessio Bernabei, punto. Dolcenera rispolvera "Amore disperato" di Nada e la trasforma in una hit dance. Più che una cover è un remix che comincia bene e poi diventa uno svuotapista. Clementino tramuta "Don Raffaè" in una tammurriata un po' ignorantella. La sensazione, sentendo la versione del rapper partenope, è che certe corde non vadano mai toccate, nemmeno per portare Faber al Festival.
I Pooh prendono in giro la festa per la reunion cominciando con "stare insieme è finito abbiamo capito ma dirselo è dura". Il medley è una vera sfilata dei memorabilia di Facchinetti e soci, ma qualcuno gli dica che non vanno a tempo! Su "Piccola Ketty" l'Ariston va in visibilio. È come stare all'ultimo dell'anno, e la nostalgia invade tutti al verso "Non restare chiuso qui, pensiero". Peccato che Red Canzian somigli sempre di più a Dado, ma tant'è, i Pooh spaccano, come per poco si spacca la mascella Facchinetti nell'acuto di "Uomini soli".
Gli Elii – con Rocco Tanica annesso nei panni di Sergio Antibiotice – cantano Beethoven nella versione da "Febbre del sabato sera" di Walter Murphy. Anni Settanta, Ottocento ed Elio e le Storie Tese in un brano solo: "Ma quanto è forte Beethoven specialmente se pensi che è uno dell'Ottocent". Momento altissimo. Arisa nei panni di Rita Pavone paiettata è ipnotica, soprattutto per merito della sua intonazione disarmante. La scelta di Rocco Hunt è francamente banale e lo scugnizzo catenato riesce a fallire anche nella riattualizzazione di un pezzo epocale – e per questo difficilmente rivisitabile – come "Tu vuo' fa l'americano"; gli intermezzi rap che inserisce sono imbarazzanti e si chiudono con un tamarrissimo "Amm' spaccat l'Aristòn". Evidentemente gli piace perdere facile.
Francesca Michielin riporta in auge "Il mio canto libero" di Lucio Battisti – scelta comoda, vero? – trasformando l'afflato mistico e sperimentale del brano in una sorta di ninna-nanna. La performance della ventenne di Bassano del Grappa è comunque azzeccata – forse poteva osare di più, perché ne ha le capacità – se poi ci suona pure il tamburo, allora l'applauso se lo merita.
È Carosone über alles con Neffa, che riarrangia in blues "O' Sarracino" accompagnato dai Bluebeaters. L'arrangiamento regge, convince, coinvolge. Neffa però sbaglia praticamente tutto al microfono – stona anche un po', è superficiale, perché non basta abbozzare l'accento napoletano – e la sua cover precipita.
Non hai mai suonato il pianoforte in pubblico. Lo devi fare proprio al Festival di Sanremo? Proprio mentre canti una canzone di Battisti? Scanu distrugge l'ultimo rimasuglio di sé con un vestito discutibile e un'interpretazione agghiacciante di "Io vivrò (senza te)" di Battisti (über alles). Disordinato, impacciato al piano – chissà se l'ha mai suonato pure in privato – strilla e sbraita senza che nessuno gliel'abbia chiesto. Un ritorno al Festival terribile per lui, e per noi. Inoltre, una spiegazione sulla presenza di Irene Fornaciari e la sua voce sinusitica sarebbe ben gradita.
Piacevole e apprezzabile il tentativo di Morgan, che con i Bluvertigo riporta sul palco dell'Ariston Domenico Modugno e "La lontananza". Ne esce fuori una versione un po' freak che si chiude con grinta, rabbia, strepiti – per quello che la voce di Morgan consente – e lancio di giacche.
È la serata dei mostri sacri scesi tra noi a ricordarci perché sono mostri sacri. Lorenzo Fragola scomoda "La donna cannone", un brano difficile persino per De Gregori, figuriamoci per lui. Ogni commento è superfluo. Azzardato e per questo rispettabile il gioco di Enrico Ruggeri, che canta in napoletano – operazione un po' disagevole per un milanese – e si districa più o meno bene tra tronche, dittonghi e indistinte. E poi riarrangiare in chiave rock di "'A canzuncella" degli Alunni del Sole non è da tutti e lui ci riesce alla grande.
Jessica Rabbit si impossessa di Annalisa e rivisita "America" di Gianna Nannini. La Scarrone ha una voce potente e il compito lo porta a casa quasi con facilità; l'avremmo vista bene – e più in difficoltà, forse – in una bella canzone di Mina. Ma è la serata delle scelte un po' così, bislacche o comode. Scelta dovuta, quasi obbligata, per gli Stadio, che portano sul palco "La sera dei miracoli" di Lucio Dalla. Un brano assolutamente nelle loro corde (vincono la serata cover), anche in quelle consumate di Curreri. Che pezzo, che acuti, quanto ci manca Lucio.

Daniele Sidonio 11/02/2016

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