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In "Un mondo raro" la musica non ha genere

Gen 21

Parlare di cantautorato italiano è una questione sempre più delicata, a cui si sente il bisogno continuo di dare dei riferimenti e prendere in considerazione numerosi punti di vista: i temi (chissà perché, sempre lui, l’amore, sempre), gli arrangiamenti, le parole. Stavolta però non si parlerà di cantautorato italiano, nonostante vi rientrino le premesse, i contorni e i personaggi.
Lo scorso mese alla fiera dell’editoria si è tenuto tra tanti interessanti incontri quello intitolato “Canzone d’autore e letteratura” a cura di Radio3 per La lingua batte. Intervennero moderati da Giuseppe Antonelli: Stefano Mannucci, Felice Liperi, Mauro Covavich, tre grandi critici musicali. Poi Francesco Gazzè, grande arrangiatore al quale il fratello Max deve metà del suo successo; Cristiano Godano, sofisticata mente e voce dei Marlene Kuntz; Simone Lenzi, frontman dei Virginiana Miller e Lorenzo Urciullo che in arte è Colapesce. Un bel quadretto perfettamente eterogeneo. Infine la presenza di Giulia Blasi, di professione blogger e scrittrice. Parlare di questo incontro significherebbe scriverci un altro articolo, ma il punto è che tra le interessanti conversazioni che si tennero sull’alto livello letterario della canzone d’autore italiana, la Blasi si è lanciata in un’osservazione sia banale che fuori luogo, e quindi, memorabile: “Finora avete fatto solo nomi di cantautori maschi, avete parlato solo di uomini. Ovviamente non avete fatto il nome di una donna. Nessun cantautore ha saputo ritrarre la vera identità femminile”.
Prima di tutto è infinitamente triste pensare che un cantautore (maschio o femmina che sia) possa incarnare l’identità o lo stato di una donna come fosse un’etichetta da difendere rispetto al maschile. Può essere stato così nel periodo di femminismo fervido degli Ottanta, dove le voci androgine delle donne etichettavano la new wave internazionale, o agli albori degli anni Novanta, quando Mia Martini cantava “Gli uomini non cambiano” (scritta peraltro da tre signori: Giancarlo Bigazzi, Marco Falagiani e Beppe Dati). Nonostante non fosse un argomento di estrema importanza in quel contesto, o comunque tale da sbilanciare il baricentro dell’incontro in argomenti sostanzialmente polemici, nessuno ha osato fiatare, anzi qualcuno/a ha pure applaudito. Senza contare il fatto che i cantautori che hanno non espresso, ma sviscerato l’essenza della donna ci sono stati, eccome (da Franco Califano, che ha fatto abbrividire le coscienze femminili, alle donne dei Marlene Kuntz dal 1994 in poi). Lei ha preferito citare Carmen Consoli. Infine portiamo a esempio questo – seppur breve e marginale, ma comunque importante – incontro letterario per fare un’ultima osservazione che sarà punto di partenza di tutto: la bellezza della musica è che non ha genere (a parte il rap italiano).
Questo l’hanno capito due interpreti ascesi freschi freschi per porgerci due perle: un libro e un album intitolati "Un mondo raro", opere dedicate alla figura di Chavela Vargas. La cosa più affascinante di tutto il progetto è che hanno intensamente espresso l’animo di una grande figura nazionale messicana. Ebbene sì, finalmente possiamo affermare e negare allo stesso tempo questa dannata essenza femminile tanto messa in discussione prima. In questo contesto parleremo solo dell’album (e non del libro, edito da La nave di Teseo, che ne traccia la sua storia), e ne parleremo in maniera insolita, non facendo riferimento ai singoli brani ma rintracciando una sorta di mappatura storiografica.
Per tutti i Santoni del Messico, gli artefici di questa meticolosa produzione sono due cantautori, maschi e pure (forse non troppo a caso) siciliani: i palermitani Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata (nominati, peraltro, in quel famigerato incontro). L’album, registrato a Città del Messico, prodotto da Picicca e distribuito da Believe, ripercorre il repertorio della cantante ranchera reinterpretato in italiano dai due cantautori e arrangiato dai Macorinos, gli ex chitarristi della Vargas: i suoi “angeli custodi”.
Comparsa in Frida (2002) di Julie Taymor e Grido di Pietra (1991) di Werner Herzog, la Vargas fu omaggiata e riportata al suo splendore identitario da Pedro Almodóvar che ne riabilitò la figura, offuscata dall’abbandono delle scene a causa del suo alcolismo alla fine degli anni Settanta. Chavela Vargas si è dichiarata apertamente omosessuale solo nel 2000 e fu una di quelle personalità che costruirono una parte intensa e iconica dell’identità messicana di quegli anni assieme a Frida Kahlo e Diego Rivera, personaggi che frequentò e che conosceva bene.
La cura con cui i due cantautori hanno intrecciato le parole di questa donna è così delicata e felicemente ben riuscita da riportarci all’epoca della canzonetta italiana, forse anche un po’ per cercare di capire questo curioso accostamento al genere messicano. Stiamo parlando di un momento del dopoguerra che ha costituito lo spartiacque tra il melodramma, i generi esteri (swing e rock’n’roll) e la successiva musica leggera. Stiamo parlando nello specifico delle contorsioni orchestrali di Nilla Pizzi e delle fondamenta partenopee di Renato Carosone, per porre due riferimenti emblematici, seppur distanti. Si tratta di un contesto specifico che ha costruito la struttura della canzone italiana ma non ha ancora assorbito la coscienza “personalistica” e intimista del cantautorato vero e proprio, quello che vedrà successivamente autori come Gino Paoli, Luigi Tenco e Fabrizio De André porre le fondamenta. Questo contesto serve a farci capire quanto c’è di simile e diverso rispetto a una coetanea di Nilla Pizzi come Chavela Vargas (guarda caso nate lo stesso anno a un giorno di differenza), lontana ma vicina per contesto e ruolo all’interno di una maniera di fare musica che non si approcciava solo al sentimento dell’amore, ma anche a uno stato d’animo identitario comune.


Astraendoci dalle due identità nazionalpopolari, “Un mondo raro” rivela assieme a questa ricontestualizzazione della produzione della Vargas un grandioso e atemporale affresco italiano sui testi di un repertorio messicano. Di Martino e Cammarata hanno dimostrato di saper gestire in maniera alternativa e originale la tradizione letteraria e poetica del cantautorato attraverso un omaggio profondo e sentimentale, mantenendo la stessa palpabile intensità in un’interpretazione che ci trasporta con leggerezza in un limbo temporale inetichettabile, dove non esistono delle maledette differenze tra uomini e donne ma solo sentimenti umani universali, e dove i collanti indelebili che attraversano qualunque confine e diversità resteranno per sempre “Le cose semplici”, come i sentimenti e le chitarre. Quelle cose che saranno per sempre fedeli ai cantautori e che stanno tra le talentuose mani di “due angeli custodi” come Juan Carlos Allende e Miguel Peña.

Emanuela Platania 21/01/2017

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