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Nominare l'indefinito in un presente impoetico: il debutto di Mèsa

Feb 16

"Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito" (Gabriel Garcia Lorca, Cent'anni di solitudine)

Potrebbe riassumersi con qualche pronome latino l'esordio discografico di Federica Messa, che nel nome d'arte Mèsa porta una zolla iberica e una orientale. Lo scorso 28 gennaio, sull’arteria laterale di San Lorenzo, a Le Mura, la cantautrice romana ha presentato il suo EP omonimo composto di cinque canzoni che si barcamenano tra senso di colpa, accettazione, coerenza e il tentativo di nominare l'indefinito.
Le cose trovano il loro nome in un limbo cognitivo, come lo spazio prende forma nel deserto e il vento si chiude in un barattolo. Inevitabilmente la matrice emotiva è quella del ricordo. "Quando la tua voce sembrava un gomitolo, quando i tuoi occhi parevano pozzanghere": immagini già programmatiche di un esame di coscienza che nel brano di apertura, "La colpa", si conclude amaramente. Le code vocaliche morbide e calde delle strofe fanno da rammendo a versi divisi tra sfumature temporali – un passato sfocato, un presente impoetico – e sentimenti contrastanti, la metrica scandita a denti stretti indaga il rapporto tra il silenzio e il dialogo, sempre in bilico sul pendolo dell'horror vacui.


"Resta a matita il sogno sbiadito di dare un nome alle cose". Il parlare-per-immagini di Mèsa scandaglia la dialettica tra le cose e la loro definizione, costruendola sull'accatastamento di pronomi indefiniti, avverbi e Mesacopindeterminativi (quando, dentro, qualcuno, qualcosa, cose, tutto). La suggestione leopardiana (dallo Zibaldone "il poetico si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago") si mescola, nel secondo pezzo, a uno spunto meta-linguistico o addirittura biblico, che vuole l'uomo spinto a nominare le cose per darsi una regolata. La canzone diventa un percorso per dare “Un nome alle cose”, probabilmente senza riuscirci a pieno, provando ad aggrapparsi alla loro verità.
Pesare le parole è una questione di necessità, di intima urgenza espressiva, di sincerità. Così chiarisce il terzo brano, "Cose vere", in cui la bellezza non è sinonimo di verità ma di vanità. Probabilmente il vero non soddisfa sempre le aspettative di chi lo riceve, ma va accettato con disincanto: “tutto il resto tenetevelo voi”.
In "Morto a galla" la voce di Mèsa ricalca con un pennarello nero le sagome sfocate del passato, dandogli una forma e uno spazio che probabilmente non esistono. Se il saggista sudafricano John Maxwell Coetzee nelmesa2 suo romanzo "Vergogna” (citato anche nella foto di copertina realizzata da Malpelo) scrive che "si fa l'abitudine a tutto, anche al continuo peggioramento di ciò che già era al limite della sopportazione", la cantautrice risponde che "abituarsi è l'arte di arrendersi". Qui il rapporto tra prima e adesso si sviluppa sul verbo "girarsi", sull'annullamento della gravità, per giungere nell'ultimo brano all'accettazione di “Tutto”, delle rotture tormentate o di nuovi "ti amo". È un presente impoetico ma vero, tinteggiato in un luogo, per l'appunto, indefinito. Con un ritmo sincopato la chiusa rende la coerenza dell'intero disco e ripropone la noce concettuale da cui si era partiti, il rapporto tra le cose e la loro definizione: "il tutto e il niente significa per me".
Riavvolgiamo il nastro e torniamo per un momento al 28 gennaio. Dal vivo Mèsa è coinvolgente, la grinta punk non fa disperdere ma anzi esalta l'essenza del suo lavoro. Musicalmente è ancora agganciata a un elemento forse più passionale che stilistico – quello che la portava in passato a scrivere in inglese – mescolato al folk chitarra e voce di matrice anglo-americana. Il vissuto collima, seppur in maniera mediata, con il cantato, inserendosi con personalità a metà tra la canzone d'autore tout court ed episodi più contemporanei. Il background si pone amabilmente su un terreno sonoro e vocale che sta tra il brit-pop e Cristina Donà, e a volte si lascia trasportare dall'effettistica, da lunghe code strumentali (“Cose vere”), o da cambi di ritmo (in “Morto a galla” e “Tutto”) che evocano qualche passaggio dei Mumford & Sons. Le venature del picking, del basso e degli strascichi vocalici si mescolano a echi di un rock a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, reso in piacevoli melodie pop.


La mediazione riguarda la musica quanto i testi, che nelle immagini acquerellate tradiscono un'elucubrazione (da intendersi in senso etimologico e non ironico); nonostante i pensieri di Mèsa nascano dalla pancia, sembra si depositino sulle note dopo una meditazione profonda, figlia della capacità di discernimento, una riflessione ponderata postuma all’esame con se stessi e col tempo che si è vissuto, e che ha vissuto noi.

Daniele Sidonio 16/02/2017

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