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Jonny Greenwood infiamma l’Auditorium con “Junun”: un progetto oltre i confini di jazz e world music

Nov 15

Junun” può tradursi dalla lingua Urdu con “mania” o “follia d’amore”, uno stato d’animo più che un termine, uno squilibrio potente, incontrollabile e rigenerante che infiamma corpo e mente trasfigurandone la realtà, o almeno la sua più stabile e consueta percezione.
Trasportate dal vento del deserto del Thar, le sonorità calde e ipnotiche del collettivo indiano “The Rajasthan Express” viaggiano su un treno irrefrenabile dalla fortezza dei maragià di Mehrangarh alla sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, per l’originale e trascinante progetto musicale guidato dall’eclettico Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, in collaborazione con il singolare compositore, produttore e poeta israeliano Shye Ben Tzur.
L'arrangiatore di album memorabili come “Kid A” e “Ok Computer” è la star della tappa romana di una performance che segue le tracce dell’omonima opera, dal genere poco etichettabile, sicuramente ibrido, orbitante in una terra fertile al confine tra il jazz e la world music.
Uscito nel 2015 e supervisionato da un altro gigante del rock britannico, il produttore Nigel Godrich, il disco registrato in India è stato anche oggetto di studio del regista Paul Thomas Anderson, che ne racconta il “making of” attraverso le immagini sgranate e ruvide di un documentario premiato al New York Film Festival e presentato alla Festa del Cinema di Roma.
Il concerto si getta su un caldo tappeto magico, sonoro e fisico. Sembra un piatto speziato, un evento maestoso, inebriante, che mescola influenze e suoni tra Oriente e Occidente, tra mondo ebraico e musulmano, dando luce a una sperimentazione musicale intensa, vibrante e seducente come la città alle porte del deserto in cui è nata, Jodhpur, immersa in un blu fragile opalescente.
Blu è anche il colore dei turbanti di un’orchestra esultante, tintinnante e ricca di sfumature che si confondono a perdita d’occhio tra i guizzi sgargianti di un’irriverente Bollywood e il misticismo solenne della musica devozionale Qawwali, unita a quella tradizionale, nobile e centenaria, gipsy e musulmana, della comunità Manganiar.
Inaugurata dall’intervento gioioso di danzanti fiati che trionfano tra il pubblico (eccezionale il trombettista adolescente della “famiglia di Aamir”), la festa “folk” intreccia sapientemente corde, linguaggi, voci e ritmi di potenti percussioni, unite in cerchio attorno a un palco che esprime un invito alla sperimentazione, all’evasione e all’integrazione culturale, coinvolgendo tutti i sensi in un mix di stimoli che battono come un tempesta di sabbia nella nebbia londinese.
Il polistrumentista inglese - con il ciuffo sugli occhi, defilato e mimetizzato nel folto ed ornato ensemble indiano - sembra assorbirne energie e venature, riflettendole con determinazione e alternando, con un tocco essenziale, una decisa chitarra elettro-jazz a disciplinate ripetizioni che ruotano attorno a poche note di basso.
Annoverato tra i più innovativi rappresentanti dell’avanguardia contemporanea, Jonny Greenwood sa svincolarsi con abilità dagli schemi convenzionali di scale e accordi, da riff rock o da un’elettronica da drum-machine, prendendo parte razionalmente alla cerimonia ritmico-vocale e componendo il mosaico estatico di una tradizione molto differente, poeticamente totalizzante.
Taglienti come lame delle storie di duelli, ma anche dolci e sensuali come baci degli amanti che raccontano, i brani spaziano dalle tonalità più meditative di “Kalandar” a quelle sacre di “Allah Elohim”, da quelle più popolari come “Eloah” alla quasi techno “Roked”, sprigionati dal legno di strumenti antichi e vivissimi - come la Dholak, i Nagara o i Khartaal - che evocano una zona franca di dialogo e libertà artistica, fusa nell’incontro di note e popoli uniti prodigiosamente in musica.

Giulia Sanzone 15/11/2016

Foto: Fabrizio Di Bitonto

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