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“La ragazza senza nome”: la cura dei Dardenne al male dell'indifferenza

Jenny, giovane dottoressa, viaggia in auto per le strade di Liegi quando di colpo un'altra vettura le si affianca, costringendola a fermarsi sul ciglio. I due le intimano di smetterla con le domande, di abbandonare l'ossessiva ricerca sull'identità della ragazza che, la sera prima, è stata trovata morta nelle vicinanze del suo studio. La stessa ragazza alla quale non ha aperto le porte dopo l'orario di chiusura di una giornata qualsiasi, vittima sconosciuta di colore ora al centro delle indagini della polizia. In questa scena di “La ragazza senza nome”, tra i titoli del concorso di quest'anno a Cannes, la poetica dei fratelli Dardenne tocca il suo grado massimo, il punto di convergenza manifestante la duplice natura del senso di colpa; dardenne2l'umana reazione come oggetto di un'inchiesta già avviata nel precedente “Due giorni, una notte”.
La camera non tradisce mai i bordi del primo piano, ci offre il volto di una donna il cui fervore etico diventa l'unica cura al male dell'indifferenza, di un mondo che ribadisce e mostra il suo lato minaccioso. Concedere dignità a un corpo, anche a costo di trascurare i propri pazienti. In virtù della professione presa a modello, quello dei Dardenne è un personaggio che rimanda inoltre a un ritratto preciso della contemporaneità, contraddittoria e violenta, sebbene l'aspetto sociale legato al tema degli immigrati rimanga subordinato all'idea alla base del film.
“La ragazza senza nome” è soprattutto una storia sulla crescita e la presa di coscienza che ci invita all'autoanalisi, ambientata nella provincia belga cara ai registi; in cui, passo dopo passo, osserviamo la parabola di individuo che agisce in un contesto che ha metabolizzato i rischi, in cui il sacrificio piuttosto che divenire “urlo” – come accadeva alla Sandra dell'opera precedente – si disperde in forma di sottotraccia emotiva. Jenny in fondo non è poi così diversa dal suo studente che decide di abbandonare la carriera, perché incapace di garantire il dardenne3necessario distacco con i pazienti. La continuità e la prossimità di sguardo adottata dai registi non può che indurci a decifrare i silenzi che governano la scena in molti momenti, quali indicatori del cambiamento interiore alla donna, che compie una traiettoria circolare che abbraccia una molteplicità di situazioni e protagonisti. È questa forse l'unica incrinatura presente in “La ragazza senza nome”, il suo lasciare in sospeso alcuni dettagli di storie secondarie altrettanto interessanti, che evidenziano la profondità di scrittura insidiandone però lo svolgimento complessivo. Anche il senso di staticità delle immagini, studiato come ponte affettivo con lo spettatore, talvolta sfugge al controllo di un certo meccanismo interno di tensione che ne regola il ritmo.
Si tratta comunque di elementi del tutto trascurabili, poiché la bravura dei Dardenne sta nella capacità di comunicare il non detto, il passato, parlando al presente; nell'abilità di suggerire un (pre)filmico che non comprendiamo appieno ma che ribolle alla fine di ogni visione. Un cinema lodevole e coraggioso che propone la sua versione e conferma la sensibilità che stringe i grandi autori d'oggi a un imprescindibile impegno civile.

“La ragazza senza nome”, scritto e diretto da Jean-Pierre e Luc Dardenne
con Adèle Haenel, Olivier Bonnaud, Jérémie Renier, Louka Minnella e Christelle Cornil
Uscita: 27 ottobre
Trailer ufficiale: http://bit.ly/2edAYcB 

Vincenzo Verderame 30/10/2016

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