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Le distanze non sono solo quelle che poniamo tra noi e l’altro, ma anche la lontananza tra ciò che eravamo e chi vogliamo diventare.

In uno scenario come la città di Berlino, in cui la fotografia di Julián Elizalde rende ruvide le superfici e i contorni dei volti, Comas, trasferitosi ormai in Germania da qualche anno, compie 35 anni e i suoi vecchi amici di Barcellona decidono di fargli una sorpresa, prendendo un aereo e arrivando senza preavviso nel suo appartamento, irrompendo senza permesso nei tumulti della sua vita. Solo tre giorni, per poi ripartire; per Olivia, Eloi, Guille e Anna il compleanno dell’amico lontano non è che un pretesto per fuggire momentaneamente dalla quotidianità. Ma il weekend non va come immaginavano, Comas non solo fa di tutto per evitarli, ma nasconde le sue nuove aspirazioni, la persona che è diventato, e pone delle distanze insormontabili, rigide come il muro che accoglie i quattro nelle prime inquadrature. lasdistan

Las distancias, secondo film di finzione per la regista catalana Elena Trapé, proiettato all’interno della rassegna del Festival del Cinema Spagnolo (dal 2 all’8 maggio al cinema Farnese di Roma), è una luce puntata, e spietata, sulle contraddizioni dei rapporti umani, in cui ognuno dei protagonisti si trova a fare i conti con i giudizi mal celati degli altri e le proprie aspirazioni sfumate e vive ormai solo nel ricordo del loro gruppo unito, prima che tutto il resto li risucchiasse.

Il tempo del film gioca con la percezione dello spettatore, prima un venerdì sincopato che passa dalla mattina alla sera lasciando implicito il resto, poi un sabato: dilatato, molteplice, multi sfaccettato. Una giornata intera che fa emergere le incomprensioni e pone fine a rapporti che si pensavano diversi. La città tedesca è uno scenario freddo che azzera i convenevoli abitudinari lasciando nudi e scomodi i sentimenti peggiori. Tra Guille e Anna, fidanzati da anni, le cose non vanno più, Eloi finisce ad ubriacarsi in un pub squallido ripensando ai fallimenti di un lavoro precario, e Olivia non risponde alle chiamate di Gari, il suo compagno, perché si rifugia in un vecchio amore che scappa nuovamente da lei.

lasdLa domenica è infine un risveglio che chiude una parentesi disastrosa, che probabilmente i cinque si lasceranno alle spalle facendo finta di nulla, tornando alle loro malinconiche e piatte realtà. Il finale è perfetto, tutto si richiude sui ricordi di cui si sentono le voci e i tentativi di mantenere in vita i rapporti, riabilita una certa superficialità, percepita nel corso del film, legata alla caratterizzazione dei protagonisti, che risulta spesso approssimativa, o forse solo sapientemente accennata, per far sì che uscendo dalla sala le incertezze mostrate diventino quelle dello spettatore, che non potrà fare a meno di continuare a pensarci.

 

 

 

 

 

 

Silvia Pezzopane

07/05/2019

qui il trailer ufficiale del film

L’estate può essere per un bambino il periodo più bello dell’anno, un interregno di tempo sospeso da riempire soltanto di giochi e del piacere di annoiarsi sotto il sole. L’estate, però, può diventare anche un complicato rito di passaggio. È quello che accade in “Estate 1993”, distribuito da Wanted Cinema nelle sale italiane dal 5 luglio, a Frida (Laila Artigas) che, ad appena sei anni, si ritrova orfana anche della madre ed è costretta a trasferirsi dal centro di Barcellona alla campagna nei suoi dintorni. Lì la attendono gli zii Esteban (David Verdaguer) e Marga (Bruna Cusì) e la cuginetta Anna (Paula Robles), con cui la bambina dovrà ricostruire un nuovo nido familiare e abituarsi a una quotidianità molto distante da quella in cui è cresciuta con sua madre. Estate 1993 1

I suoi genitori sono parte di quella “generazione perduta” falciata dall’AIDS, che in Spagna fra il 1981 e il 1997 colpì più di 120.000 persone, anche a causa della fortissima diffusione del consumo di eroina fra i più giovani. Tutto questo, la regista Carla Simón non lo fa esclamare platealmente ai suoi personaggi ma dissemina gli indizi nelle conversazioni fra gli adulti e nei giochi fra i bambini. Come accade quando Frida si imbelletta per giocare alla mamma ed esclama alla piccola Anna: “Chiedimi di giocare con te”, solo per poi risponderle più volte “Dopo, adesso mamma è troppo stanca”.

L’intera pellicola è costruita su un gioco di non detti, un tessuto complesso in cui frammenti di vita quotidiana sono cuciti assieme per presentare la difficilissima accettazione di una nuova realtà e dell’impotenza di fronte alla morte di un genitore. Carla Simón, dopotutto, questa tragedia l’ha vissuta sulla sua pelle; eppure il dato autobiografico non inquina una narrazione che, senza urla né gesti estremi, riesce a raccontare con lucidità il dolore, senza mai cedere al patetismo.

Estate1993 2Di più, aver conosciuto in prima persona la materia di cui tratta, permette alla regista catalana di raccontare la storia da un punto di vista privilegiato e nient’affatto scontato: quello dei bambini. Per tutti novantasei minuti del film si guarda la realtà attraverso gli occhi di Frida e, in misura minore, di Anna; lo si fa attraverso i loro scambi, i loro giochi, i loro scontri e il linguaggio segreto che stabiliscono durante la prima, lunga estate che trascorrono insieme. È come se la macchina da presa stessa si abbassasse alla loro altezza e gli adulti diventassero un rumore di fondo, con i loro motivi che improvvisamente diventano irragionevoli e prepotenti.

Perché Frida non capisce come mai sua zia e suo zio stabiliscano per lei regole più ferree, rispetto a quelle a cui l’ha abituata sua madre, viziandola troppo. Perché Frida ha un lutto così grande da elaborare, che non riesce nemmeno a piangere e il dolore le resta dentro come un livido, complicando non poco gli iniziali rapporti con la sua famiglia d’adozione. Ci sono di mezzo i dispetti fatti a Marga e le nuove distanze da stabilire con Anna, di cui Frida non sa prendersi cura e che a volte vorrebbe far sparire per restarsene tranquilla – come accade quando la porta in mezzo al bosco e lì la lascia da sola, “finché non ti verrò a prendere”.

Carla Simón ha la rara abilità di snocciolare rivelazioni sui protagonisti e inanellare situazioni di vita senza fretta, ricreando il ritmo lento, torpido e apparentemente privo di senso di una lunga estate nell’assolata campagna catalana. Pure i complicati rapporti familiari – fra Marga e la famiglia del marito, in special modo la suocera – per quanto filtrati attraverso lo sguardo inconsapevole delle due bambine, vengono rivelati poco alla volta.

Estate 1993” non è un film di improvvise esplosioni emotive, di pianti a dirotto, di grida, di porte sbattute, e proprio per questo riesce a intrappolare nella pellicola uno scampolo della vita di persone comuni, che si trovano a fronteggiare ed elaborare insieme una grave perdita. È un film anche difficile, perché non spiega: chiede allo spettatore di fare attenzione, di cogliere la delicatezza dei gesti e degli scambi fra i personaggi. Sono rapide pennellate, che accostate insieme creano un crescendo di emozioni, destinate ad esplodere tutte insieme nell’ultima, delicatissima scena, che restituisce tutto il senso del percorso che Frida ha intrapreso insieme a Esteban, Marga e Anna.

Non stupisce che il film – uscito in Spagna nell’estate 2017 – si sia conquistato alla Berlinale 2017 il premio per la Miglior Opera Prima e sia stato selezionato a rappresentare la penisola iberica agli Oscar (pur non riuscendo, alla fine, a rientrare nella cinquina finalista per il Miglior Film Straniero). Grande successo Carla Simón ha ottenuto soprattutto in patria, dove ha fatto incetta di premi: sia al Premio Goya (ottenendo, fra gli altri, quello per la Miglior Regista Esordiente) sia ai Premios Gaudì, i riconoscimenti più importanti del cinema catalano. Un’attenzione meritata, anche in considerazione dell’abilità con cui la regista ha saputo gestire due attrici giovanissime, permettendo loro di interpretare due ruoli genuini e spontanei, per consegnare allo spettatore un’opera prima tanto dolente quanto onesta.

Di Ilaria Vigorito, 26/06/2018

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