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Oltre le parole, rimane solo l’orrore: "The War Show" apre le Giornate degli Autori a Venezia 73

Appena prima della proiezione di “The War Show”, nella categoria Giornate degli Autori al 73° Festival del Cinema di Venezia, vengono annunciate le solite raccomandazioni: niente foto o video di alcun tipo. Ma in questo caso c’è un motivo in più per il quale non è raccomandabile che le immagini mostrate durante il film-documentario firmato dai registi Andreas Dalsgaard e Obaidah Zytoon non circolino in rete in maniera incontrollata.
The War Show” è una testimonianza, uno squarcio nella nebbia mediatica che avvolge il nostro mondo occidentale verso quel cumulo di polvere e macerie che chiamiamo Medio Oriente. I due registi iniziano il loro racconto nel 2011, quando cominciò quella che qui, nei nostri salotti, chiamavamo con compiaciuto orgoglio “Primavera Araba”. Nel 2011, il regime della famiglia Assad aveva stretto troppo il cappio intorno al popolo siriano, che inneggiava alla morte del tiranno e cominciava la sua guerra per la libertà: per le strade, nei vicoli, portando striscioni, rifugiandosi dalla polizia che commetteva atrocità indicibili. Il tutto ripreso dalla telecamera che è venerata come una divinità, perché l’unica speranza di salvezza è - i siriani ne sembrano convinti - far conoscere al mondo ciò che sta dilaniando le loro vite e il loro paese. E chi regge la telecamera ha accesso ovunque, fin dentro il cuore del conflitto, nelle case semi-distrutte dopo i bombardamenti avvenuti durante l’assedio alle città conquistate dai ribelli, durante i quali i cecchini si appostavano e sparavano a chiunque si affacciasse ai balconi delle case, uomini, donne, bambini o animali.
I morti diventano martiri, la voglia di libertà si tramuta in sete di vendetta e sangue, all’estremismo si comincia a rispondere con altro estremismo, perché non c’è un dialogo, non c’è una speranza che non sia la guerra stessa: afferma un padre inquadrato dalla videocamera, “se cercano di uccidere mio figlio, io imbraccio il fucile”, mentre un altro insegna a sparare a un bambino che potrà avere al massimo otto anni: “voglio che sia armato, voglio che sappia sparare, ma voglio che lo sappia fare bene”. Intorno a loro, i fischi delle bombe, le macerie di città fantasma. Lo stesso bambino parla alla telecamera: “mio cugino è un martire, è stato ucciso da un cecchino. Il proiettile gli ha trapassato la pancia e le budella erano fuori”. “Quando è successo?” “Oggi”.
“The War Show” è uno spettacolo, perché i popoli che subiscono o combattono questa guerra sono soltanto attori. A muovere le fila sono i signori della guerra, che vendono le armi e spesso provocano incidenti tali da scatenare altro odio, altra benzina sul fuoco. Gli stessi attori del film, ragazzi che lottano e parlano e vivono e ridono, con la bocca piena di parole che stridono con le loro facce così giovani, i loro gesti così ingenui: sono tutti morti, nei modi più atroci, e hanno lasciato i due registi, i loro amici, per raccontare. Forse però il messaggio è cambiato: non si tratta più di far conoscere, di informare. Solo di mostrare, per immagini, perché le parole si sprecano e perdono valore, significato, ogni senso che hanno mai avuto, se ne hanno mai avuto uno.
Per noi occidentali che abbiamo il comodo coraggio di scrivere sui social, “L’Isis esiste perché abbiamo permesso che Assad andasse via e adesso piangiamo. Sì, era un dittatore ma almeno li teneva a bada”. Come animali. Come bestie che possono venir macellate finché accade lontano dai nostri lidi, invasi da quegli immigrati che vorremmo rimandare a una casa che non hanno più. Per noi questo film è più urgente che mai e ci auguriamo che non rimanga chiuso tra le mura dei festival (sarà anche al Festival del Cinema di Toronto). Ci aspettiamo di vederlo nelle scuole, per portare il suo messaggio crudo e vivido, che non va capito ma vissuto con il fegato, le viscere. Vanno visti i bambini che giocano con i fucili carichi preferendoli ai palloni, vanno viste le donne felici perché possono, per la prima volta nella loro vita, avere la libertà di fumare una sigaretta, vanno viste quelle bandiere nere che iniziano, inquietanti, a scivolare per le strade, nate dall’odio dei criminali di guerra e dei fondamentalisti rilasciati dalle prigioni di Assad affinché trasformassero i ribelli contro un regime sanguinario in terroristi da rivendere alle nostre paure occidentali.
Più di tutto va insegnato il valore di una testimonianza sofferta, coinvolta, di un uomo e una donna che hanno consegnato ore e ore di filmato e, con l’aiuto di uno sceneggiatore, lo hanno montato, organizzato e diviso in sette capitoli che raccontano quattro anni di ricordi, paure e anche gioie, momenti di allegria cristallizzati in questo film luminoso che, molto giustamente, apre le Giornate degli Autori. Registi che è stato un onore vedere commossi davanti alla Sala Perla che, a fine proiezione, si è alzata in piedi per un lungo e attonito applauso.

Giuseppe Cassarà 01/09/2016

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