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Knight of Cups: il cavaliere errante “oltre la superficie” di Malick

Terrence Malick non è un regista facile e in realtà non vuole nemmeno esserlo, lo testimonia il fatto che non rilascia interviste e non appare in pubblico. Le caratteristiche del suo cinema sono facilmente non condivisibili, così poco inclini ad aiutare a tracciare un significato, con un ritmo e una struttura narrativa poco concilianti. Eppure c'è qualcosa di così universale, di così totalizzante nei suoi film, che se ti entra dentro non ti lascia più, anche dopo la visione. Perché come la natura, tanto amata dal filmmaker, è parte dell'uomo e viceversa, così il suo cinema deve divenire un tutt'uno con il suo pubblico, e viceversa.
Per Malick non sono importanti le parole dette dai personaggi e il cui labiale è chiaramente comprensibile dallo spettatore, queste sono piuttosto rumore di sottofondo. Ciò che importa davvero è la voce over che in realtà è una inner voice dei 000knightprotagonisti: ciò che viene detto serve a narrare le immagini quasi come un documentario ma con una potenza narrativa tale da divenire uno storytelling ancestrale. L'uso voluto e paradossale del fuori sincrono fra immagini e parole, del lip sync che non corrisponde e non deve corrispondere, è qui che si nasconde la chiave dei film di Malick.
Così, dopo il nucleo familiare sviscerato in “Tree of Life” e quello sentimentale in “To The Wonder”, in “Knight of Cups” è la dicotomia fra superficiale e profondo ad essere analizzata. E ciò avviene attraverso la vita di un autore, Nick (interpretato da Christian Bale) che è alla ricerca del proprio io interiore e che soprattutto vorrebbe allontanarsi dalla vita da jet set fatta di frivolezze e futilità. La macchina da presa si divide così tra i suoi pensieri e le immagini, che invece di mostrare la natura come nei due precedenti lavori, si concentrano sulla metropoli, sull'asfalto, sugli studios. Si tratteggia il mondo dello spettacolo attraverso le palme lungo le strade, uno dei simboli di Los Angeles, e attraverso varie guest star come Antonio Banderas; senza dimenticare però la paura dei terremoti, come mantra del cinema “primordiale” di Malick. Le sequenze sono scandite dalle carte dei tarocchi - come il “cavaliere di coppe” del titolo, a simboleggiare una novità, che può essere tanto positiva quanto nefasta e ben incarna il viaggio intrapreso dal protagonista - e di una favola che il padre leggeva a Nick quand'era bambino.
Le donne della vita del personaggio di Bale sono il mezzo con cui lui vorrebbe elevarsi, senza però riuscirci: la matura dottoressa interpretata da Cate Blanchett, con cui è stato sposato; la donna col volto di Natalie Portman, già impegnata con un altro; l'attrice sbarazzina con le fattezze di Freida Pinto. Lo stesso vale per la famiglia del protagonista, composta dal padre (Brian Dennehy) e dal fratello (Wes Bentley) che hanno perso la via in seguito alla morte dell'altro fratello di Nick. Anelare a un obiettivo senza raggiungerlo mai completamente, è questa la vita secondo Malick? Sicuramente è questa la sensazione che trasmette “Knight of Cups”, quasi il terzo capitolo di una trilogia sull'esistenza iniziata con “Tree of Life” e ora portata a compimento.

Federico Vascotto 12/11/2016

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