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Recensito incontra la cantautrice Marlò

Una donna delicata, una voce raffinata che accarezza e graffia. Federica Di Marcello, in arte Marlò, scrive canzoni e a 25 anni ha partecipato a tutte le rassegne più importanti per l'artigianato musicale. Dalle storie che ha vissuto sono nate "Il pozzo nell'anima", "La donna di scorta", "La mente mente" e "Tu che canti piano", con cui ad Area Sanremo ha strabiliato parolieri di chiara fama. Non ama le urlatrici, si meraviglia teneramente a ogni complimento, lotta contro i pregiudizi sul cantautorato femminile e si appresta a pubblicare il primo disco. Si ispira a Norah Jones e ha studiato al CPM di Franco Mussida, storico membro della PFM. Noi di Recensito l'abbiamo raggiunta al telefono e ci siamo lasciati trasportare a lungo dalla sua voce, dalle sue storie, dalla sua sensibilità. Passato, presente e futuro di un'artista decisa ma non presuntuosa compongono un percorso che vi riportiamo integralmente. Le piacerebbe musicare Alda Merini, ma per ora Marlò "si limita" a incarnarne questo verso: "la semplicità è la raffinatezza della profondità".

Partiamo dalla fine. Migliore interpretazione a Botteghe d'autore 2015 con "Il pozzo nell'anima". Che esperienza è stata?
Bellissima. Da settembre a oggi è una delle cose che mi ha dato più soddisfazione, sono riuscita finalmente a portare un mio pezzo solo piano e voce. Che poi mi sia stato dato un premio è una cosa ancor più di valore. È stato un concorso pulito, con una bella giuria; Ivan Rufo (direttore artistico del festival, ndr) ha gestito tutto benissimo, e poi in finale c'erano tutti artisti validi. Lo ripeterò più avanti.

L'anno scorso sei arrivata in finale a Musicultura con "La donna di scorta". Nell'edizione di quest'anno c'erano concorrenti donne molto dotate, dalle idee interessanti, ma forse un po' troppo intimidite. Per una cantautrice – per di più emergente – quanto è più complicato farsi riconoscere?
Io credo che ci sia un limite grande dato dalla storia del nostro cantautorato, che è associato agli uomini. E forse è anche giusto, perché sono i cantautori uomini ad aver fatto la storia, spesso le donne sono state eccellenti interpreti. Forse c'è un po' di pregiudizio, si pensa che una donna sia meno preparata rispetto all'uomo, ma Musicultura e le varie Carmen Consoli, Marina Rei e Paola Turci dimostrano che non è sempre vero. Farsi prendere in considerazione è complicato anche perché tra uomini e donne cambiano le tematiche: il punto di vista di una donna ha un qualcosa in più che forse oggi manca, anche per colpa degli stereotipi che ci vengono proposti. Se non sei un'urlatrice non sei presa in considerazione. Ma la donna è anche delicatezza, raffinatezza. Io ci tengo e non esco dal mio essere donna, porto sul palco la mia esperienza sperando che possa essere apprezzata. Norah Jones ce l'ha fatta, io punto a quel cantautorato lì.

Da dove viene la storia della donna di scorta?
È una storia personale. Io scrivo quasi sempre di cose che mi sono accadute o che ho vissuto da vicino, perché quando vuoi parlare di ciò che non sai, o sei molto preparato oppure... La donna di scorta può essere tante cose, è una mia percezione. Una persona può fartici sentire in qualsiasi circostanza. È una storia uscita senza velleità ma al momento giusto, e mi ha portato più fortuna di quanto potessi pensare.

A Musicultura 2015 Niccolò Fabi ha spiegato che per la nascita di una canzone è necessario un "accidente" di qualche tipo. Lo scorso anno tu hai dichiarato più o meno la stessa cosa, e cioè che la canzone è un mezzo per incanalare un sentimento nato da un evento, bello o brutto che sia. La pensi ancora così?
Certo. Chi è capace riesce a trovare nella scrittura un mezzo per buttare fuori un sentimento, che si tratti di gioia o tristezza. Se crei un canale stai meglio e sei fortunato rispetto a chi non ha una passione. Quando mi chiedono di scrivere una canzone, io rispondo "spera per te che non la scriva", perché potrei essere arrabbiata o delusa. Ora mi sto sforzando di prendere argomenti e scriverne, ma finora tutto è sempre nato da qualcosa che mi ha colpito o che mi è accaduto, da una lettura, dato che leggo molto. Dall'esigenza di dire qualcosa che non riuscivo a dire.

Nel 2014 tra gli ospiti c'era la PFM di Franco Mussida, che tu conosci bene. Quanto influisce la tua formazione "scolastica", chiamiamola così, nella composizione? Certo le basi tecniche sono importanti, ma forse non tutto si impara a scuola.
Ho iniziato a studiare a 10 anni, e fino ai 15 sono stata una maniaca dello studio della musica, ero ossessionata dalla perfezione del suono e della voce. Quando sono arrivata al CPM ero ancora in quel limbo, ma gli insegnanti che ho incontrato mi hanno liberata. La tecnica è fondamentale per evitare di rimanere negli stessi canali, ma una volta che hai imparato a non farti male mentre canti, la puoi dimenticare. La tecnica è alla base, ma il resto è creatività, suono, interpretazione. Devi solo trovare il tuo modo per dire qualcosa, almeno così è per il cantautorato. Se stai raccontando una storia, alla fine è quella che deve arrivare. Il CPM mi ha lasciato tanto, i miei maestri Tommaso Ferrarese e Andrea Rodini mi hanno insegnato a trovare la mia dimensione.

Rimanendo a Musicultura 2014, tra gli ospiti c'era anche Vasco Brondi, uno dei fari del panorama indipendente. Premesso che non è sempre giusto etichettare un artista, dove si colloca Marlò?
Vorrei collocarmi da qualche parte perché vorrebbe dire che ho fatto un percorso, ma aspetto che sia qualcun'altro a dirmelo. Non sono presuntuosa, faccio la musica che mi piace e che so fare, e spero che la semplicità sia la mia forza. Se dovessi trovare un'etichetta direi pop d'autore, ma preferisco inserirmi semplicemente nella musica bella, che sia cantautorato, pop, o trash (ride, ndr).

Sei stata finalista al Premio Lunezia, una fucina niente male per i giovani parolieri. Il gioco di parole di "La mente mente" come è nato? È stato complicato mantenerlo per tutto il brano?
Io non scrivo seguendo delle regole, faccio fatica a impormi un tempo, una metrica. Se quando leggo le parole, queste suonano, allora poi ci metto la musica. Il gioco di parole nasce dal mio sonno disturbato: una notte mi sono svegliata con l'incipit in testa, poi ho mantenuto non tanto il gioco quanto la musicalità, la cantilena. Il ritornello non usciva e allora l'ho lasciata riposare, poi mi sono detta "zitti tutti, non voglio sentire più niente", e da lì è nato il gioco del ritornello. Mi diverte molto perché è un po' fuori dai miei schemi, ma la versione che andrà nel disco mi somiglia di più.

Arriviamo a Marlò. Nome d'arte un po' francese coniato dal nonno, se non andiamo errati. Cosa nasconde? O cosa evidenzia?
Povero nonno, l'ho reso involontariamente famoso! (sorride, ndr) Inconsciamente, però, ha riassunto le cose che più mi piacciono. È incisivo, breve, elegante, un po' internazionale, ma vicino al mio cognome. È tutto ciò che vorrei fosse accostato a me e alla mia musica. Un nome d'arte non lo volevo, ma Marlò non mi ha fatto sentire una persona diversa ed è un modo per ricordare più semplicemente di chi si parla.

Hai detto che leggi molto. Spesso i cantautori, per vicinanza tematica o sensibilità, si accostano alla letteratura nella composizione anche di interi dischi. Quanto entra la letteratura nella musica di Marlò?
Diciamo che ho una passione per la lettura in generale, che coltivo sin da piccola. Ho sempre un libro in borsa, insieme a qualcosa per scrivere. I libri mi hanno spesso influenzata: leggi e cogli una bella immagine, finalizzata a quel racconto, in cui tu però vedi tutt'altro. Sono appassionata alla poesia e agli aforismi, li trovo esaltanti. Mi piace che le mie canzoni possano essere lette anche senza la musica. Degli scrittori, poi, adoro l'ironia. Ecco, se potessi musicare Alda Merini sarei felicissima, ma non mi azzardo. Comunque una persona che scrive, non può non leggere.

A proposito di poesia, Giò Alajmo una volta ha detto che "la canzone non è altro che una poesia che ha ritrovato la sua melodia". Condividi questa espressione?
Sì, in pieno. Parto spesso dalle parole, e per me un bel testo rimane tale con o senza musica. Se alla lettura non se ne coglie il senso, allora non è un bel testo. Ad esempio tutte le canzoni di Fabi, o di Vecchioni, sono poesie. Tante poesie potrebbero essere musicate e tante canzoni potrebbero diventare poesie. È una scelta.

Quest'anno sei stata tra i finalisti di Area Sanremo con "Tu che canti piano". È una storia vera? "Potresti suonare per me, ti guarderò seduta sul divano senza scarpe, quel che resta del trucco, le luci basse e tu che canti piano". Sei consapevole di aver scritto uno dei ritornelli forse più eccitanti che un uomo – almeno per chi ama suonare – possa sentirsi rivolgere?
Che imbarazzo! (ride, ndr) Questa non era una canzone, ma una lettera per una persona con cui non riuscivo a comunicare. L'ho scritta per lasciargliela nella giacca, ma mi sono vergognata così tanto da trovarmi a leggerla in un contesto qualunque e ancor più imbarazzante, e mi sono giustificata dicendo "è una canzone". Tale è diventata, ma è senza metrica, senza tempo; mi hanno chiesto di modificare il testo, ma per me doveva rimanere così. Solo dopo mi sono accorta che era molto intima, ma ormai era fatta. L'ho cantata ad Area Sanremo, in un'altra occasione e poi nulla più. Ma troverò il coraggio di suonarla e cantarla ancora.

Tu che canti piano, "La donna di scorta" e "Il pozzo nell'anima": i tuoi brani "fanno male", graffiano le corde più intime di chi ascolta.
Non voglio dire che spingo alla riflessione perché non sono nessuno, ma spero che "far male" sia inteso in senso positivo.

Assolutamente. Ascoltandoti, ci si accorge che c'è qualcosa di forte dietro al testo.
Allora è un complimento bellissimo. Quando scrivo di qualcosa che mi ha colpita, mi piacerebbe che la gente pensasse "se ti comporti così, un'altra persona sta male", oppure che qualcuno si riconosca in quella situazione. Sono molto sensibile, e la sofferenza per scrivere devi almeno averla percepita, perché nella musica deve arrivare un sentimento. Anche per far ridere devi esser stato male: puoi ironizzare su qualcosa perché sai cosa vuol dire. Nel nuovo disco c'è una filastrocca, "Il maggiore", che è molto allegra, e quando l'ho scritta ho chiamato tutti per avvisarli!

Ciò che balza all'occhio, anzi all'orecchio, è l'enorme dose di sincerità. Insomma chi ascolta capisce immediatamente che non c'è niente di forzato o di artefatto in ciò che dici.
È l'unica cosa a cui tengo. Gli arrangiamenti passano, ma se il messaggio resta sono felice. È l'unica cosa per cui mi batto. Grazie!

Botteghe d'autore, Area Sanremo, Premio Bianca D'Aponte, Premio Lunezia, Musicultura, Tenco Ascolta. Hai intrapreso un percorso più artigianale, più "colto" e meno commerciale per far conoscere la tua musica. È stata una scelta ponderata?
A me le urlatrici non piacciono, ma oggi non c'è scelta. L'alternativa è poca, Carmen Consoli e Paola Turci sono due rispetto a centinaia. Ho fatto una scelta automatica: io canto così. Ho provato a urlare come mi dicevano ma non ce l'ho mai fatta. Ho sempre cantato come mi piaceva, come per me era bello. Con questo percorso il mio modo di cantare ha potuto avere un riscontro migliore, anche se poi non disdegno il commerciale, il pop inteso come popolare, perché la musica deve arrivare a tutti. Ho fatto la gavetta che mi serviva – e non è finita – a contatto con artisti importanti. Era, secondo me, il percorso più adatto al modo che ho scelto di fare musica. Con il cd cerco di dare un'impronta più radiofonica, mi piacerebbe che il senso profondo delle mie canzoni arrivasse al critico musicale e alla bambina che gioca in casa.

A proposito del disco. Dal singolo pezzo all'opera intera, dal micro al macro, il tuo modo di comporre è cambiato?
Dopo Area Sanremo sentivo il bisogno di qualcosa da portare in giro per farmi conoscere. Avevo tre pezzi arrangiati da tre persone diverse, per cui ho deciso di prendere una persona che è Francesco Fugazza, un ragazzo di cui si sentirà parlare. Con lui ho incontrato il mondo dell'elettronica, a me estraneo. È venuto fuori qualcosa di particolare perché ho unito il mio modo di cantare a una persona con le orecchie più moderne delle mie. Mi sono resa conto che mi mancava una fetta di musica che mi piace molto, quella dei suoni, dei cori, delle voci come strumenti. Abbiamo messo ai brani un vestito più moderno e internazionale, spero sia venuto fuori un bel mix.

Ultima domanda: dove sta andando Marlò?
Avendo nuovi brani da far ascoltare, ho in programma di ricominciare i concorsi. Mi piacerebbe riprovare Area Sanremo, ma vedremo. A gennaio uscirà il disco e spero di presentarlo nelle grandi città, per vedere qual è il riscontro col pubblico; lavori e spendi del tempo ma poi devi verificare cosa arriva agli altri. Spero di aver fatto un cambiamento in positivo, l'anno prossimo sarà tutto incentrato su questo cd.

Che immaginiamo sia autoprodotto.
Assolutamente autoprodotto. Sono stata nel posto più bello del mondo, a Poggibonsi, nelle Cantine di Badìa (Cantine di Giovanni Sala, all'interno del Castello di Badìa di Nicola Dei, ndr), immersa nelle colline e nel silenzio, a contatto con la natura. È una dimensione alienante, ma importante, è un altro mondo. Poi ho trovato persone meravigliose, dei professionisti, siamo diventati un piccolo team e ora ho dalla mia parte tante persone che sostengono il mio progetto.

Daniele Sidonio 07/09/2015

La vita della diva italiana più amata nel mondo attraverso il suo ricettario

In occasione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia la rubrica "Colori e Sapori" sceglie di rendere omaggio ad una grande diva del cinema italiano. A questo punto vi starete chiedendo cosa hanno in comune una diva, il cinema e il cibo. La risposta è “In cucina con amore. Tradizione e fantasia nelle ricette della diva italiana più amata nel mondo”, un libro scritto e curato da Sophia Loren, edito da Rizzoli nel 1971. Una perla rara per gli appassionati di cucina e di cinema. Un ricettario fortemente autobiografico pieno di aneddoti e consigli personali riguardo ai procedimenti. Quasi un diario che delinea il ritratto di una donna, attrice, mamma e nonna che sapeva prendersi cura della sua famiglia e dei suoi ospiti celebri e non, in un periodo storico ancora lontano dai blog, dalla condivisione di ricette, quando i segreti della cucina erano affidati al quaderno pieno di appunti, correzioni e all’oralità. La genesi del libro lo rende ancora più emozionante. Sophia Loren l’ha scritto in lungo periodo di riposo forzato nel 1968, nell’Hotel Intercontinental a Ginevra, quando tutti i suoi sforzi erano concentrati sul desiderio di concepire un figlio, infatti nella prefazione scrive: “(questo libro)mi è caro più di un film riuscito perché mi riporta a quei giorni di ansia dopo i quali è nato Carlo junior, la più grande felicità della mia vita”.
È in quell’occasione che per vincere la noia cominciò ad appuntarsi le sue “fantastiche esperienze gastronomiche” frutto dei ricordi d’infanzia, di viaggi e degli insegnamenti ricevuti. Il risultato è un racconto autobiografico che svela la sua vita, i suoi incontri, il suo passato e il suo rapporto con il cibo. Nelle prime pagine troviamo un vasto assortimento di antipasti meglio classificabili come piatti “sfiziosi”, facendo riferimento al significato napoletano di piatto che stuzzica la voglia. Tutte le ricette si rivolgono direttamente ai lettori, instaurando un rapporto paritario e di fiducia, riportando degli accorgimenti su come risparmiare tempo e sulle sue preferenze, sulle cene dell’ultimo minuto per accontentare gli “ospiti piovuti all’improvviso”, e scegliendo accostamenti controtendenza tra ingredienti poveri e ricchi come i fagioli con il caviale. Ci sono ingredienti esotici, come l’avocado, che mangiò per la prima volta nella splendida villa del regista Charles Vidor a Beverly Hills e di cui è diventata ghiotta, e si trovano ricette tradizionali come le “Napoletanine” che cucina quando le prende la nostalgia di casa, “Filetti alla Loren”e tantissime varianti di sandwich, e non potevano mancare le fasi di preparazione di una buona pasta fatta in casa. Tra una ricetta e un'altra troviamo delle pagine dedicate agli ospiti, alla “psicologia per decidere come sarà un pranzo”, alla storia dell’invenzione della forchetta, alla ricerca d’ingredienti freschi e genuini, come parte fondamentale del processo di realizzazione di un piatto e che emana amore per la cucina, contro la pigrizia dei cibi già pronti (era solo il 1971), alla necessità di usare la fantasia per mantenersi in forma, variando la dieta. Con grande carisma e modernità Sophia Loren in queste pagine si fa promulgatrice della campagna antifumo, del veto di fumare a tavola perché il fumo “ottunde le papille, impedisce di sentire bene il sapore”, proprio nel periodo in cui si stavano diffondendo i primi dati sui danni causati dalle sigarette ma anche del ritorno all’utilizzo delle mani per assaporare dei cibi come le patatine fritte: “ per me è un dogma, per esempio, che il gusto delle patate fritte comincia dai polpastrelli”.
Questo libro è anche una grande dimostrazione di amore, per la sua terra, le sue origini, per le persone che la circondano, alle quali dimostra affetto con la preparazione di piatti realizzati con le sue mani, per il cibo come metafora di sicurezza, “assieme al tetto che ci ripara”, rispettato in tutta la sua sacralità, senza mai dimenticare gli anni in cui ha sofferto la fame. Non a caso suo marito Carlo Ponti è per lei un involtino, rivelando la sua mania ad assegnare un soprannome di un cibo alle persone che ama.
Con grande orgoglio Sophia Loren scrive alle sue lettrici: “ Vi prego, non mi fate fare brutte figure. Aprendo questo libro siate le benvenute nella mia cucina. Mangiate con me”.

Gerarda Pinto 02/09/2015

Il Colosseo: il naufragio del mondo antico e del contemporaneo

Sono tempi duri nella Capitale del “mondo di sotto” e i luoghi della cultura chiudono inesorabilmente, stretti nella morsa della crisi, che forse non è più economica, ma è sempre più sociale, politica.
E allora, dedicare una serie di articoli agli spazi della cultura, per coscienza civica e responsabilità storica, diventa un’occasione per raccontare lo splendore che forse ancora ci appartiene, partendo dal luogo di cultura per eccellenza, l’anfiteatro più grande del mondo: il Colosseo.

Combattimenti, martirii, condanne: il “turista per caso” - quello che al Colosseo ci va per farsi un selfie con i centurioni abusivi, o per sfregiarne le mura in preda a deliri di eternità - difficilmente riesce ad associare al monumento un’immagine meno superficiale di quella suggerita dalle pratiche di violenza spettacolare, che avrebbero animato l’Anfiteatro Flavio al tempo della sua piena attività.
Solo qualche mese fa, suscitava consensi e perplessità schizofreniche il progetto di ricostruzione dell’arena, promosso dal Ministro Franceschini per permettere lo svolgersi di manifestazioni culturali, all’interno di quella che è stata e rimane la cartolina di Roma e dell’Italia per il mondo intero.
In totale il piano prevede 80 milioni di euro di investimenti nel biennio 2015-2016 da investire in musei e siti archeologici e culturali in tutta Italia. Tra questi, anche l'intervento per la ricostruzione dell'arena del Colosseo, che in origine altro non era che una distesa di sabbia (in latino rena, da cui l’italiano arena), utile ad assorbire il sangue e il sudore di chi la praticava, per forza o per diletto.
Ma cosa succedeva davvero nell’anfiteatro più famoso del mondo? Com’era costituito e come era reso partecipe il pubblico? Il pollice dell’imperatore decreteva sempre la vita o la morte dei gladiatori, o era possibile un quieto “pareggio”?
In realtà le fonti a disposizione sono necessariamente da leggere criticamente, specie se si pensa che la più importante è il Liber de spectaculis di Marziale che si può - con un pizzico di ironia - definire “l’addetto stampa della dinastia dei Flavi”.
L’opera racconta con dovizia di particolari i cento giorni di giochi che animarono nell’80 d.C. il complesso voluto da Vespasiano, innaugurato da Tito e completato da Domiziano. Certo è che quello che gli storici chiamano “il naufragio del mondo antico” ha annegato nell’oblìo la potenza, i colori, gli umori e le vite che affolavano gli ordini della struttura. Già l’oblìo, quella sorta di velo sulla memoria, che ai tempi dell’Impero era talvolta una vera strategia politica: si pensi, ad esempio, alla damnatio memoriae toccata all’ultimo imperatore della dinastia Giulio-Claudia – Nerone - per il quale i Flavi non risparmiarono una denigrazione postuma fortissima, arrivando alla riconversione dei monumenti voluti dall’Imperatore (passato poi alla storia come incendiario e nefasto), quando non alla distruzione (si veda il cosidetto “Colosso di Nerone”, una statua enorme, di cui oggi rimane solo il basamento nei pressi del Colosseo).
Eppure la storia del Colosseo parte proprio da Nerone: lì dove sorgeva il lago della splendida Domus Aurea neroniana, Vespasiano – primo Imperatore della dinastia degli Homines Novi - volle fosse eretto quello che doveva essere il simbolo della grandezza sua e dell’impero agli occhi del mondo.
Costruire sull’acqua? Per i romani, è risaputo, gestire le risorse idriche non era un limite, ma un’occasione di esaltazione edilizia e architettonica: non è dunque diffcile immaginare che, come si riscontra in Marziale e in Cassio Dione, l’arena del Colosseo, almeno prima del completamento degli ipogei sotto Domiziano, potesse essere allagata e svuotata per giochi d’acqua come le naumachie. Dunque una zona lacustre, un luogo dove innanzitutto serviva ideare un sistema per far scorrere e all’occorrenza richiamare le acque.
Scorrere via, proprio come sono trascorsi oltre venti secoli, scorrere via come sono passate le tante vite del monumento più rappresentativo d’Italia, che nelle prossime settimane proveremo a conoscere meglio, epurandolo dai selfie e dai graffiti vandalici, cercando di rievocare la maestosità in parte perduta di un luogo deputato allo spettacolo, un luogo che resterà, fortunatamente, sempre aperto.

Adriano Sgobba 31/08/2015

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