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"Il disegno per me vale più di tutto. E quando dopo due cataratte i miei problemi alla vista si sono aggravati è stata la tecnologia a venirmi in soccorso. Dal 2000 non sono più riuscito a controllare il segno e il colore attraverso la materia e sono passato al computer. Dover dare addio al'odore della carta, all'inchiostro di china, è stato molto doloroso, ma in realtà mi ha aperto un mondo. La scoperta del digitale mi ha offerto possibilità inesauribili di lavoro. Ho potuto continuare a raccontare il mondo".

Sergio Staino, 74 anni, è un omone col bastone che oramai fatica a tenere gli occhi aperti. Dietro alla barba bianca e ai capelli arruffati si cela uno dei maggiori vignettisti della nostra storia, il papà (tra gli altri) del mitico Bobo, fiero comunista costretto a lottare con la disillusione e la realtà sempre più lontana dall'ideale.

E Roma ha deciso di celebrarlo, con una mostra che aprirà i battenti il 6 maggio al Macro Testaccio, negli spazi della Pelanda. "Sergio Staino. Satira & Sogni" raccoglie 300 opere tra disegni, acquerelli e lavori digitali, abbracciando quasi 40 anni di lavoro dedicato alla satira tra giornali, cinema, teatro e tv. Curata da Maurizio Boldrini e Claudio Caprara, la mostra sarà visitabile fino al 23 agosto. 

"La satira, da sola, rischia di scivolare verso il rancore. Il sogno invece aiuta a restare ottimisti, così come pensare all'utopia: tutto ha un senso se qualunque disegnino satirico che si crea rientra in una visione generale del mondo che ha come punto fermo la crescita della civiltà e della giustizia sociale. Ecco perché accanto a vignette appena accennate con battuta annessa ci sono anche opere più ricche dal punto di vista dell'immagine. Sono percorsi storici: si parte alla fine degli anni '70 e si arriva ad oggi, a Renzi, ai migranti e a Papa Francesco" ha spiegato Staino durante l’inaugurazione riservata alla stampa al Macro Testaccio.

C'è poi una seconda sezione dedicata al fumetto, con ampio spazio al celebre Bobo, che a detta dello stesso Staino ha risentito molto dell'influenza di Paperino, "un perdente che non si arrende mai", e di Charlie Brown. Infine, un dissacrante pantheon di "undici personaggi più o meno eccellenti d'Italia" (da Fini a Grillo, passando per D’Alema e Bersani), con tanto di epigrafe tombale dall'altissimo tasso comico. Ma non solo: l’allestimento prevede anche una serie di schermi circondati da disegni su cui scorreranno immagini e musiche di Gaber, De André, Guccini e altri canautori.

Un appuntamento imperdibile, per riscoprire il passato, approfondire il presente e strizzare un occhio al futuro.

 

(Simone Carella)

 

 

Sono gli ultimi giorni per vedere ad Arezzo la mostra di Andy Warhol, ospitata fino al 10 maggio nella Galleria Comunale di Arte Contemporanea. Un percorso breve ma interessante, che ci introduce nel mondo della pop art e del consumismo americano a piccoli passi dimostrando come una qualsiasi copertina, rivista, fotografia può diventare arte se è autografata da Andy Warhol. Un principio che lo stesso artista, convinto che tutto potesse essere arte e che la via più semplice fosse sempre la migliore, apprezzava.

Il nostro viaggio inizia al secondo piano della Galleria, tra immagini di Liza Minelli e Mick Jagger, icone della musica che hanno ispirato il pittore nelle sue creazioni. Quelle che vediamo sono opere più o meno grandi, in cui i volti si ripetono, si duplicano, alternando i colori vivaci tramite la tecnica della serigrafia. Entrando nella seconda sala è come se invadessimo lo spazio intimo, ma al tempo stesso pubblico, di Warhol. L'immagine della Campbell soup stampata su borse e vestiti diventa l'oggetto simbolo dell'America, paese del McDonald's, della Coca-Cola, dove comprare e girare tra centri commerciali è l'attività più popolare. Insieme a tutto ciò, convivono una serie di scatti in bianco e nero che ritraggono il capostipite della pop art in azioni quotidiane.

Prima di salire al terzo piano, ci imbattiamo in una stanza separata dal resto, solitaria, in cui scopriamo un lato più nascosto e affascinante dell'artista. Siamo immersi nel mondo delle drag queens afroamericane, “Ladies and Gentlemen” dall'identità ambigua, ritratti in pose sensuali o più comuni attraverso l'uso di chiazze di colori innaturali.

Scalino dopo scalino arriviamo alle opere più note e rappresentative: la prima serigrafia di Marilyn Monroe - musa ispiratrice di Warhol - quelle di Liz Taylor, Mao Tse Tung e tanti altri. Anche i soldi diventano oggetto artistico, i suoi “Two dollars” si riproducono all'infinito per ironizzare sulla pratica dei collezionisti di spendere moltissimi soldi per comprare un quadro. Tutto è provocazione e distorsione della realtà.

 

(Sara Bonci)

Dal 20 aprile al 13 giugno 2015 la Galleria Marie-Laure Fleisch ospita "Comfortable in My Skin", la prima personale a Roma dell’artista inglese Jonny Briggs. Il giovane artista inglese, classe 1985, presenta un progetto fotografico ideato e scattato interamente tra le mura della sua casa d’infanzia, di cui lui e i suoi genitori sono i protagonisti assoluti.

In mostra una selezione di lavori realizzati tra il 2010 e il 2014 che delineano il suo più recente percorso creativo, focalizzato sull’urgenza di riscoprire se stesso mediante l’analisi della propria infanzia.

Attraverso l’uso della fotografia esplora il rapporto tra se stesso e l’inganno, e la realtà costruita dalla famiglia, mettendo in discussione i confini tra bambino e adulto, tra la realtà e la finzione, tra figlio e genitori. La casa di famiglia, nella provincia inglese, è, infatti, il set prediletto da Briggs per le proprie simulazioni, talvolta diventando essa stessa protagonista assoluta con le sue invadenti carte da parati floreali e la moltitudine di oggetti accumulati negli anni. Una presenza vissuta dall’artista come viva, incombente, che ha assorbito la propria infanzia e custodito i propri segreti. L’opera "The Home" sintetizza questa sua visione, una fotografia di grande formato che inquadra un calco vinilico della cucina, color carne, simile a una pelle asportata e distesa sul prato. La casa rappresenta proprio una seconda pelle per l’artista, della quale vorrebbe disfarsi perché sentita come pesante e soffocante creatura ma che allo stesso tempo avverte inevitabilmente ancora come rifugio.

Nell’opera che dà il titolo alla mostra "Comfortable in My Skin" l’artista è ritratto con la testa intrappolata nella camicia del padre, il quale a sua volta, tradendo un’espressione esausta, sembra partorire il figlio adulto. In Holding invece è la madre ad avere la testa coperta da una camicia maschile, mentre il corpo, fintamente sospeso su una parete, simula una crocifissione domestica, emblema di un ruolo sacrificale della donna.

Coinvolgere i propri genitori e i luoghi dove è cresciuto nelle istallazioni, gli permette di guardare alla sua infanzia con gli occhi di un adulto, cercando i momenti perduti dell’infanzia, svincolandosi dai rapporti convenzionali che legano i genitori e i figli per cercarne uno autentico, al di fuori degli schemi sociali.

 

(Gerarda Pinto)

 

 

 

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