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Arriva a Bologna “Sfregi”, la prima mostra antologica di Nicola Samori’

Il Palazzo Fava di Bologna dall’8 aprile fino al 25 luglio ospiterà Sfregi, la prima mostra antologica in Italia di Nicola Samorì. Il progetto è stato realizzato da Genus Bononiae e studiato dall’artista in esclusiva per le sale del Palazzo delle Esposizioni di Bologna. Attraverso 80 lavori che spaziano dalla scultura alla pittura, l’esibizione permetterà di leggere in modo esaustivo il percorso da lui intrapreso negli ultimi vent’anni, illuminando le opere più rappresentative della sua produzione.
Originario di Forlì, Samorì si è formato presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Già in quel contesto prende forma il suo stile e la sua poetica. L’artista copia minuziosamente le opere di grandi maestri, soprattutto del Cinquecento e Seicento, per poi trasformarle e trasfigurarle con violenti fori, graffi e squarci: una prassi che ha mantenuto e sviluppato nel corso degli anni sperimentando sempre nuove tecniche. 
Con l’esposizione a Palazzo Fava, Samorì si cimenta in un faccia a faccia con la storia dell’arte, innescando un costante gioco di rimandi, analogie e suggestioni tra le sue creazioni e il patrimonio del Museo. Così nel Salone verrà presentato Il Mito di Giasone e Medea, un corpus di lavori realizzati nell’ultimo decennio che sembrerà reagire alla pittura dei Carracci. La Sala delle Grottesche ospiterà un affresco monumentale, Malafonte, che grazie ad un gioco di perfette geometrie parrà essere stato concepito da sempre per quello spazio. Infine con una serie di composizioni incentrate sull’ustione del rame, l’artista tenterà uno stravolgimento cromatico della Sala degli allievi di Ludovico Carracci. Se gli imponenti dipinti del piano nobile sembrano dialogare con ciò che li circonda, le opere esposte nelle sale del secondo piano sono invece di piccole dimensioni e più intime, ma non meno preziose. Questo percorso permetterà ai visitatori di abbracciare la vasta e complessa produzione di Samorì.  Attraverso una continua ricerca ossessiva di nuove tecniche, l’artista si è differenziato dall’odierno panorama artistico per la sua originalità, balzando agli onori della critica internazionale. Il Presidente di Genus Bonaniae, Fabio Roversi-Monaco, spiega: “Penso che Samorì abbia tutto il carattere per reggere un dialogo tanto ambizioso e sono felice di accogliere a Palazzo Fava un giovane della nostra terra. Le sue opere ci fanno riflettere ed emozionare, riscoprendo il valore taumaturgico dell’arte, di cui mai come oggi abbiamo bisogno.”.

 Elisa Pizzato   16/03/2021

Recensito intervista Giampiero Vigorito, curatore di Raistereonotte - il libro

Recensito incontra Giampiero Vigorito, curatore e autore di “Raistereonotte – il libro” (Iacobelli Editore), un testo che ripercorre la storia del celebre programma radiofonico della Rai negli anni 1982-1995.
Il libro raccoglie numerose testimonianze e aneddoti raccontati dai conduttori storici del programma, dagli ascoltatori e alcune testimonianze di personaggi “eccellenti” da Arbore a Bennato, da Sandro Veronesi a Fiorella Mannoia, da Claudio Baglioni a Ligabue.

Perché ha deciso di scrivere un libro sul programma radiofonico Raistereonotte?

Il progetto covava sotto la cenere da diversi anni. La prima idea era quella di raccogliere il meglio delle lettere che ci scrivevano gli ascoltatori. Era il nostro unico modo di stabilire un contatto con loro. Eravamo in un’epoca in cui non esistevano internet e le mail, la messaggistica e i social. Non avevamo neanche un fax o un numero verde dedicato. Vivevamo in questo tempo sospeso, pieno di relazioni epistolari dalle quali emergevano racconti e pensieri profondi, stralci di vita personale, confessioni intime. Il tutto stimolato dalla musica che ognuno di noi conduttori mandava in onda. Poi nel tempo l’idea si è andata modellando. Abbiamo mantenuto i ricordi degli ascoltatori di allora che sono stati raccolti attraverso un gruppo di Facebook cresciuto esponenzialmente fino a arrivare a 6000 iscritti e che ci ha rituffato negli anni di Stereonotte. Il tutto è stato condito dalle testimonianze di noi conduttori, dagli interventi dei personaggi famosi e da una serie di preziosi contributi come la prefazione di Carlo Massarini e di molti altre personalità legate al mondo di Raistereonotte. 

Com’è nata la sua collaborazione col programma?

Ogni conduttore aveva fatto le sue esperienze nelle prime radio private sorte nella seconda metà degli anni Settanta e nei primissimi network che stavano pioneristicamente formandosi allora. I primi a essere interpellati fummo una decina di speaker di una radio romana molto ascoltata e apprezzata in quegli anni: Radio Blu. Il primo periodo, infatti, vide alternarsi ai microfoni di Stereonotte molta gente di Roma cresciuta attraverso quella esperienza. Poi, col passare degli anni, si inserirono conduttori provenienti da altre zone d’Italia come la Napoli di Lucio Seneca, Asti di Massimo Cotto, Genova di Ida Tiberio, L’Aquila di Maurizio Iorio. Molti di noi erano da tempo critici musicali e fu proprio questo il passepartout più importante per entrare a far parte dei conduttori di Stereonotte: scrivevamo per riviste che prima dell’intervento di internet avevano tirature altissime, come Rockstar, il magazine che ha maggiormente contribuito a infoltire le schiere degli speaker del programma notturno. Oltre a me ricordo Stefano Mannucci, Enrico Sisti, Alberto Castelli, Peppe Videtti, Paolo De Bernardin, Alex Righi, Alessandro Mannozzi e molti altri che si dividevano tra la carta stampata e i microfoni della radio.

Raistereonotte è stato la fucina di numerosi talenti del giornalismo, cosa ha rappresentato per lei questa esperienza?

L’esperienza basilare che ognuno di noi ha maturato fu che non si trattava più di scrivere di dischi che spesso la gente non conosceva e che in qualche modo doveva decriptare dai giudizi delle nostre spesso cervellotiche recensioni. La radio permetteva per la prima volta di far ascoltare quello che prima era stato affrontato in maniera più fredda e virtuale. Alla fine il nostro compito era quello di creare delle colonne sonore per la notte, di unire con i nostri interventi confidenziali due brani tangibili, reali. Passavamo uno strato della colla più raffinata e suggestiva che avevamo a disposizione per incollare dei brani tra loro. Il gioco era semplice.

Chi sono stati i suoi maestri?

Sono cresciuto leggendo avidamente le riviste di settore del periodo e ascoltando i primi programmi che la Rai destinava al pubblico più giovane come “Per voi giovani”, “Radio2, 21 e 29”, “Master” o “Popoff”. Nel libro, ognuno di noi, in una scheda standard che vale per tutti, cita i suoi maestri: Beh, molti di noi non hanno potuto fare a meno di indicare Carlo Massarini come il nostro nume tutelare e il maggiore ispiratore.

Ha un aneddoto legato alla sua esperienza a Raistereonotte che vorrebbe raccontarci?

Più che un aneddoto una considerazione finale. Raaistereonotte è stata una trasmissione davvero entrata attraverso la porta principale dell’immaginario collettivo di molti e che ha scavato un solco nel cuore di quelle creature della notte che hanno dedicato alla musica le ore che li accompagnavano nello studio, nel lavoro, negli impegni notturni. Un programma che per 14 anni dall’82 al 95 ha riempito i sogni sonori di moltissime persone. Inizialmente si pensava, soprattutto in quegli anni, che la notte fosse appannaggio solo di alcune categorie, che so come i fornai, i vigilanti, i camionisti in realtà capimmo che c’erano molti giovani: liceali e studenti che amavano accompagnare i loro studi con il sottofondo di una radio accesa nel cuore della notte. E la cosa che mi è rimasta più impressa è che dalle valanghe di lettere che ci arrivavano in redazione ogni ascoltatore, proprio perché sveglio come noi, avvertisse come le nostre parole e la nostra musica fossero dirette proprio a lui. 

Che consigli darebbe ad un giovane che aspira a diventare un conduttore radiofonico?

Di ascoltare molta radio, di non fermarsi davanti a niente, di studiare i numerosi format delle più diverse radio, da quelle di nicchia ai grandi Network nazionali. I mezzi di approvvigionamento musicale sono orami tantissimi: dalle piattaforme come Spotify o Apple Music con le loro playlist personalizzate ai canali che sono sorti sulla scia di You Tube e che permettono di fare delle scalette autonome, in completa libertà, fuori dalla logica degli algoritmi. E poi non mancare l’appuntamento con le tante radio web e i podcast che si trovano in rete. Bisogna essere curiosi e affinare le proprie conoscenze per poi formarsi un gusto personale. La radio rimane il mezzo più caldo di cui continuiamo a disporre.

D.B.  04.01.2021

Recensito incontra Viola Graziosi, protagonista al Piccolo di Milano di "Tu es libre"

Una ragazza francese di buona famiglia parte per la Siria, unendosi  a gruppi di combattenti.  Una scelta che destabilizza la vita di chi rimane ad attenderla e che spinge a capire cosa la abbia portata a una tale decisione. In scena fino al 18 ottobre, al Piccolo Teatro di Milano, Tu es libre, diretto da Renzo Martinelli, dramma in cui una madre, un padre, un’amica e un innamorato indagano sul significato della parola libertà. Recensito ha incontrato Viola Graziosi, protagonista della piece. 

Tu es libre è stato considerato uno dei migliori testi di drammaturgia contemporanea dalla Comédie-Française.  Qual è il sottotesto?

Tu es libre è scritto da Francesca Garolla, che è anche in scena nel ruolo dell’autrice, ovvero di se stessa. Il testo è una riflessione sul concetto di libertà attraverso lo sguardo di due generazioni: quella dei genitori e quella dei figli. Si tratta di una sorta di indagine che la Garolla ha scritto nel 2017 ispirandosi a fatti realmente accaduti che sono venuti a minare il nostro senso di supremazia “occidentale”: mi riferisco agli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan. L’autrice ci pone davanti un buco nero nel quale si perde ogni riferimento psicologico e democratico, in cui ciascuno è messo di fronte alla meravigliosa e mostruosa responsabilità della propria (presunta) libertà. 

Un tema molto attuale quello della guerra in Siria, ma anche molto crudo. Come ti sei rapportata col tuo personaggio? 

Il testo prende spunto dalla Siria, ma non parla della guerra o meglio di quella guerra. Parla di noi. Chi è Haner, questa ragazza? E’ una delle prime domande che viene posta dalla Madre, il personaggio che interpreto e la domanda può essere compresa in molti sensi. Cosa è “Haner”, cosa rappresenta, ora, qui, in teatro. Non parliamo di fatti di cronaca, nel teatro tutto è finzione. Lo spazio scenico diventa una sorta di laboratorio in cui poter fare delle esperienze “in vivo”. Nella drammaturgia di Francesca si mischiano i piani, quello cronachistico e quello metafisico ed è questo che rende il testo potente. È un’esperienza condivisa con il pubblico, dove ciascun personaggio difende la propria umanità portando un punto di vista. Il pubblico si può riconoscere da una parte o dall’altra, si può vedere. Lo spettacolo si sviluppa anche un po’ come un giallo: chi è il colpevole? Forse tutti e nessuno, forse siamo solo davanti al fallimento, alla distruzione di qualcosa, ma dalle macerie tutto può ripartire. Un po’ una metafora dell’Europa, intrisa di grande fiducia nel futuro. Infatti il testo è catartico: dà speranza proprio perché ci mette di fronte a quello che ci fa più paura. Attraverso la lente del teatro, che è un luogo sano e protetto, con le dovute distanze, si guarisce. 

Dopo aver interpretato lo scorso anno Chris MacNeil, la madre della bambina indiavolata nella versione teatrale dell’Esorcista, ti confronti nuovamente con un personaggio che affronta grosse difficoltà. Questa volta tua figlia diventa una possibile terrorista…

Sto imparando quanto sia difficile essere madri, soprattutto oggi. Ti ringrazio di accomunare questi due personaggi perché sono un buon esempio. Chris MacNeil nel romanzo di Blatty (L’esorcista) , è un’attrice di successo, divorziata, atea, che si ritrova davanti la bambina indiavolata. La Madre di Tu es libre è una giovane donna di media borghesia, bella, lavoratrice, intellettuale, sensuale e anche amorevole, dolce, giocosa. La questione è che non si sostituisce più la parola “madre” alla parola “donna” e il prezzo da pagare è molto alto. Nel testo si fa riferimento al personaggio di Andromaca che dal greco significa “uomo che combatte”. Andromaca è la madre per eccellenza e la brava donna di casa, che viene in qualche modo punita dagli dei, che le fanno morire il marito Ettore e il figlio Astianatte. Come se la virtù non fosse sufficiente. Andromaca mette in crisi il concetto stesso di virtù attraverso l’espiazione del suo dolore. Anche la Madre di Tu es libre porta con sé una sofferenza incolmabile: <<Il mio dolore è davvero qualcosa che non so dire>>, e cerca una sorta di verità che le spieghi il perché di tutto ciò. Ecco questo “perché” è una domanda esistenziale. È la pretesa dell’uomo (o della donna) di comprendere e voler ordinare la natura. Dove sono i confini tra il bene e il male? 

La consideri una madre coraggio? 

Sicuramente. Le donne sono molto coraggiose e le madri ancora di più. Io non ho figli, ma sto scoprendo proprio grazie a questi personaggi e a quello che mettono in atto in me, l’istinto di maternità. Non c’è niente da fare, è parte di noi donne, una liquidità femminile che si adatta alle forme e che non può che contenere tutto. 

Non hai un nome in questo dramma, sei semplicemente la Madre: un personaggio in cerca d’autore in stile pirandelliano?

A noi l’autore non manca, anzi l’autrice! Quello che ci manca è il “perché, il senso, la comprensione di noi stessi attraverso ciò che ci accade. Allora, grazie al teatro, ci poniamo insieme delle domande. Come andare avanti? La risposta credo sia insieme, solo insieme.  

Deve essere un’emozione immensarecitare in un teatro come il Piccolo: come vivi questa esperienza in periodo di Covid, con la platea semipiena?

È una grande emozione nonchè un onore per me tornare al Piccolo e nella sala Studio dedicata a Mariangela Melato; è tra i più bei teatri del mondo per il rapporto magnifico con il pubblico, per la sua rotondità. Sembra un teatro greco contemporaneo. Anche quella è una pancia, una gestazione. In questo spettacolo gli spettatori sono coinvolti direttamente, sono in penombra, noi li vediamo, eppure le mascherine non mi danno fastidio. Le portiamo ovunque ormai. È una giusta attenzione alla nostra libertà e a quella del prossimo, ed è proprio di questo che parliamo nello spettacolo. In questo caso la “distanza” permette di avere più aria, più spazio vitale. Anche noi siamo distanziati sul palco e questo accresce la nostra fame. Il teatro porta a un contagio positivo, di idee, apertura, conoscenza e rispetto. Infatti dall’apertura dei teatri il 15 giugno non ci sono stati contagi del virus e ne siamo fieri! 

Qual è il ruolo del teatro in un momento del genere?

Trovo che il teatro sia fondamentale perché è un luogo in cui si cerca insieme di fare esperienze che riguardano il nostro tempo. A teatro ci interroghiamo sul nostro presente e ci accorgiamo che non siamo soli, che dall’antichità a oggi l’uomo si è posto di fronte alle stesse domande, alle stesse difficoltà. Il teatro porta alla catarsi. Ed è di questo che abbiamo più che mai bisogno adesso. Il teatro ci toglie la paura, e sappiamo quanto questa indebolisca l’anima e il corpo. Il teatro è un atto d’amore e solo l’amore ci rende invincibili. 

Pensi che le messe in scena via web possano emozionare lo spettatore allo stesso modo che da vivo?

Ho appena fatto uno spettacolo ideato proprio per un palcoscenico virtuale: “La mia esistenza di acquario” di Rosso San Secondo, prodotto dallo Stabile di Catania con la regia di Lydia Giordano, che ha coinvolto 17 attrici da tutta Italia. Una cosa difficilissima da fare dal vivo. Non sono esperienze paragonabili, certo, però è stato interessante recitare dietro a uno schermo e cercare di superare questo enorme limite. Chiaramente quello che i corpi comunicano dal vivo non è paragonabile, nè può essere messo in discussione, ma non dobbiamo avere paura della tecnologia. Facebook è un enorme palcoscenico virtuale, allora forse riempire quel palcoscenico di arte può avere senso. Penso anche che possa coinvolgere una nuova generazione: quanti ragazzi vanno a teatro spontaneamente? E allora mi dico, se Maometto non va alla montagna… L’importante è riuscire a comunicare un’esperienza condivisa. Questa è l’unicità del teatro. 

Cosa ti ha lasciato e cosa ti lascerà questo testo?

Il testo, come dice il regista Renzo Martinelli ogni sera, è un viaggio e i viaggi sono sempre diversi. Questo tocca delle verità profondissime che vanno al di là del tempo e dello spazio, del bene e del male. Poi c’è il gioco degli attori e degli spettatori che lavorano insieme, perché a viaggiare è la nave e procede solo se riusciamo a navigare insieme. Anche questo è bellissimo. Together. To play! 

Elisa Sciuto   17/10/2020

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