Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 786

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 778

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 776

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 779

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 785

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 788

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 784

Dialogo con Massimo Roberto Beato sullo spettacolo "Donne di Mafia"

È circa mezzogiorno quando raggiungiamo telefonicamente Massimo Roberto Beato, autore di "Donne di Mafia: Storia di un digiuno lungo trent’anni, per non perdere il vizio della memoria", spettacolo che in scena dal 23 al 26 maggio, presso il Teatro Spazio 18b di Roma. Attualmente Beato è in Inghilterra per lavoro e si è concesso una breve pausa per poter rispondere alla nostra intervista. Alla domanda “mi dica tutto sullo spettacolo” le sue parole sgorgano come un fiume in piena, irradiando il suo grande e irrefrenabile amore per il proprio lavoro. E ci racconta che tutto è iniziato nel 2012, per un laboratorio sulla legalità, che aveva tenuto a Tor Bella Monaca: “Era un laboratorio che nasceva in occasione delle stragi di mafia e coinvolgeva i ragazzi e le ragazze del quartiere – spiega Beato, con una voce ricca di emozione – ed era molto interessante notare come fosse percepito dai giovani, che hanno una sensibilità particolare verso questo tema. Il tutto era nato da un progetto dei teatri di cintura e dal proposito di portare il teatro in periferia. È stato un prezioso inizio, perché in quell’occasione, scrissi questo testo giovanile ispirato ad una di quelle vicende che sfuggono alla narrazione storica e da cui erano trascorsi ben vent’anni”. Durante un’afosa estate del 1992, a Palermo, quattro donne della città digiunarono in segno di protesta contro le stragi della mafia. Si riunirono in piazza Castelnuovo dal 22 luglio al 23 agosto e, nell’indifferenza generale e in quel silenzio che agevolava le attività mafiose, mostrarono apertamente la loro indignazione, senza armi e senza violenza.

“È un gesto potente, rivoluzionario, una genuina forma di protesta - spiega l'autore - un potente sciopero dal forte valore politico, oltre che sociale. La parte più interessante di questa protesta è l’utilizzo che viene fatto da queste donne del proprio corpo. Il loro corpo viene concepito come strumento di iscrizione. Quella di digiunare è una scelta apparentemente innocua, che sembra rimarcare l’azione straordinaria di Gandhi, ma che in verità assume un valore e un significato più profondo. Queste quattro donne si sono rese conto che il loro corpo, la loro corporalità, fosse per natura mafioso, fosse il prodotto della Mafia. Erano nate in un contesto sociale e geografico che produce quei corpi, che li rende uguali a sé, che li snatura al punto da far assumere loro la sembianza che desiderano. Sono corpi plasmati, passati per naturali. Giunte a questa scoperta, queste donne si snaturano, si liberano da quella sostanza mafiosa che vive in loro e cercano di riprendere il controllo su loro stesse. E, svuotando il corpo, liberano la loro società”.

La loro protesta, quindi, assume una natura performativa e si adatta alla dimensione del palcoscenico: “è un flashmob ante litteram se vogliamo - commenta – cercano di creare una micro-utopia, una loro micro-comunità che faccia da contrasto agli eventi che gravitano intorno e, così facendo, si dissociano”. Questo spettacolo si colloca trent’anni dopo le stragi di mafia e prevede un nuovo allestimento un nuovo cast e la nuova regia di Jacopo Bezzi, aiutato alla regia da Federico Malvaldi.

Com'è nata la vostra collaborazione?

“Non è il primo spettacolo che realizziamo. Dopo quel primo laboratorio di oramai vent’anni fa, era nata l’idea di portare in scena questo copione con un cast professionale. Ha debuttato ufficialmente al Fontanone Teatro, durante quella grande manifestazione che ora purtroppo non c’è più e che si svolgeva durante l’estate. In quell’occasione un produttore della Rai con cui stavo lavorando ha ritenuto doveroso farne una trasposizione televisiva, all’interno di un progetto sulla legalità per la scuola. Quando è andato in onda, ha avuto particolare riscontro. I trent’anni dall’evento, oggi, sono un pretesto per poter mettere in scena nuovamente uno di quegli eventi simbolici, ma circoscritti, che non vengono ricordati nei libri di storia”.

Il cast è costituito da Monica Belardinelli, Virginia Bonacini, Sara Meoni e Veronica Rivolta, che interpretano le quattro donne protagoniste della protesta. Si partirà da questo evento privato per trattare l’attentato di Paolo Borsellino, avvenuto il 19 luglio 1992, a neanche due mesi di distanza dall’uccisione del collega Giovanni Falcone. Sarà un viaggio all’interno degli orrori del nostro passato, per esorcizzare la possibilità che possa ripetersi, con l'ausilio della memoria. Per quanto riguarda questa nuova messa in scena, Beato è rimasto davvero colpito da alcune scelte registiche di Bezzi e dal lavoro che è stato compiuto sul suo testo: “Posso anticipare di essere rimasto stupefatto dal lavoro del regista, perché ha colto anche degli aspetti contemporanei. Questa operazion ha riattualizzato il mio copione, l'ha reso contemporaneo. Questa è una caratteristica che distingue la Compagnia dei Masnadieri, che ho fondato proprio con il mio collega Jacopo, oltre ad un’attenzione particolare riservata ai corpi e alla corporalità. Sono corpi che scrivono e creano queste storie in scene. Posso dire che sono davvero orgoglioso del lavoro che è stato fatto su questo mio testo, che se non erro è stato il primo che ho pubblicato. Un testo che agita in me dei tormenti proprio perché appartiene ad un’altra fase. Quando rileggi quello che hai scritto da giovane, vorresti cancellare tutto. E invece è un testo che ha ancora tanto di dire e che è stato trasformato in modi inimmaginabili, davvero stupefacenti per me. Quando scrivo, ho in mente una messa in scena potenziale; perciò, è incredibile restare sopresi dalla grande operazione che si può fare su quel testo. Mi sono sentito orgoglioso, davvero orgoglioso”.

Sono queste le parole con cui conclude Beato, con una sonora risata e con grande umiltà. Ora non resta che metterci in ascolto e riflettere, ricordare, perché nulla si ripeta.

Adele Porzia 23/05/2022

La musica che gira intorno: conversazione con Filippo Arlia

Credevate fosse impossibile? Ebbene non lo è. Filippo Arlia, classe 1989, è la dimostrazione che l’impegno e la dedizione premiano sempre. Calabrese, diplomato al Conservatorio “Fausto Torrefranca” di Vibo Valentia a soli 17 anni e con il massimo dei voti, è tra i più giovani e brillanti pianisti e direttori d’orchestra in Italia. Laureato anche in Giurisprudenza, ha calcato importanti palcoscenici internazionali suonando più di quattrocento concerti, da solista e come direttore. Dal 2006 ha scelto di investire il suo tempo e il suo amore per la musica attraverso l’insegnamento: è attualmente docente di pianoforte e di direzione d’orchestra presso il Conservatorio di Musica “P.I. Tchaikovsky” di Catanzaro. Nel 2011 ha fondato la prima Orchestra Filarmonica della Calabria. All’alba di una nuova edizione del “Fortissimo Festival”, da lui nuovamente diretto, ripercorriamo assieme la sua carriera, con uno sguardo ai progetti futuri.

Com’è nata la sua passione per la musica e qual è stato il suo percorso in Conservatorio?

La mia è una famiglia di musicisti. Ho cominciato a suonare il pianoforte a 5 anni e, in età adolescenziale, ho capito che avrei fatto questo nella vita. Ho come l’impressione che oggi molti ragazzi vengano al Conservatorio già con l’obiettivo di procacciare una professione futura. Dopo aver compiuto gli studi in maniera del tutto spontanea e naturale, cominciando a fare i primi concerti ho preso consapevolezza del mio amore verso il palcoscenico e da lì è nata l’ambizione. Contemporaneamente ho studiato Legge - per coerenza ho portato a termine il percorso - ma sapevo che quella non sarebbe stata la mia strada.

Ha scelto di dedicare la sua prima e importante tournee europea al compositore americano George Gershwin. Come è nata questa decisione? Il suo viaggio al fianco dell’autore di Rhapsody in Blue è proseguito nel 2014 con il pianista jazz Michel Camilo e nel 2019 con Stefano Bollani.

È un mio grande rimpianto non aver studiato jazz. Si tratta di un linguaggio che avvicina tantissimo i più giovani sia al teatro che al mondo dello spettacolo in generale. In questo, Gershwin è stato un maestro: attraverso le sue armonie, le colonne sonore, la sua musica ‘completamente scritta’, semplice da ascoltare e da far capire, è riuscito a creare un ponte tra musica jazz e musica classica. A volte non per forza le cose più difficili risultano essere le più efficaci.

Restando nell’ambito del jazz, la tradizione pianistica conta nomi illustri: Bill Evans, Thelonious Monk, Dave Brubeck, Chick Corea, Keith Jarrett. Ci sono dei caratteri di questo genere che più l’affascinano? Quanto è importante per un musicista essere versatili? Negli ambienti più classici e puristi dei Conservatori, accusa ancora un certo ‘snobismo’ nei confronti di questi generi, come anche il pop?

Sono innamorato del jazz; forse ho più dischi e vinili di jazz che di musica classica. Probabilmente è un mondo con meno pregiudizi e stereotipi rispetto a quello della musica classica. Ho da poco concluso la Carmen di Bizet al Politeama di Catanzaro; la replicheremo anche quest’estate nei Teatri di Pietra siciliani. A mio parere è stato un debutto magnifico, eppure ho sentito cultori della lirica criticare i tempi musicali ‘differenti dai soliti’. Per me è una nota positiva; significa che si è dato un tocco di originalità e di personalità alla musica. Purtroppo, nel mondo della musica classica, queste ‘trasgressioni’ sono viste spesso con accezione negativa. Ritengo che ci sia stato un mondo, legato ai Conservatori e alla tradizione musicale purista, che negli ultimi decenni tendeva ad allontanare l’essere esageratamente versatili dai teatri. La verità - ed è una cosa storica - è che le novità vengono sempre accolte con un po’ di dubbio, di diffidenza. Il mondo classico deve assolutamente sdoganare questa problematica se davvero vuole prendere il volo e se vuole avvicinarsi ai più giovani, perché il futuro sono loro: un teatro vuoto, secondo me, non piace a nessuno. Oggi la musica ha bisogno di un rinnovamento. È troppo facile nascondersi dietro il fatto che alla prima del Teatro alla Scala ci sia il sold-out. L’Italia deve essere percorsa in lungo e in largo e la musica classica non fa proprio parte del tessuto sociale italiano dei nostri ragazzi. I nostri giovani, a volte, non sanno minimamente dell’esistenza di un luogo antico di aggregazione sociale nel quale l’artista esegue la sua performance live. Conoscono bene il cinema, pagano il biglietto, hanno presente chi sono gli attori, magari anche il regista, ma non sanno che esiste lo spettacolo ‘dal vivo’ che, oltre ad essere quello dei concerti di musica pop, è anche e soprattutto quello teatrale. Tutto ciò che è commerciale fa notizia perché il sistema economico ha stabilito così. Bisognerebbe prestare maggiore attenzione per far sì che la voce del teatro arrivi anche ai nostri giovani. Un ragazzo che va a teatro, che entra in un museo o che compra un disco senza dubbio è un ragazzo migliore.

Nel 2018 ha inciso, nell’adattamento orchestrale di Ravel, la celebre suite Quadri di un'esposizione di Mussorgsky. Alcune parti di quest’opera, nel 1971, sono state rielaborate e presentate in chiave rock dagli Emerson, Lake & Palmer. Sono tanti gli esempi di artisti che hanno rivisitato brani di musica classica: dai Metallica con la Quinta sinfonia di Beethoven alla pfm con Mozart. Come giudica questi esperimenti? Pensa che approcciarsi alla musica classica con strumenti moderni possa essere una chiave per (far) scoprire determinati repertori ancora sconosciuti?

Assolutamente sì. Potrei portare un esempio banalissimo: l’anno scorso si sono celebrati i 100 anni dalla nascita di Astor Piazzolla. Negli anni Settanta lui ha cominciato a usare gli strumenti elettronici: la batteria elettrica, il violino elettrico, la chitarra elettrica e anche l’Organo Hammond, strumento molto utilizzato nei nuovi linguaggi. Noi suoniamo Piazzola con il “Duettango”, un progetto che sostengo da tempo, e l’anno scorso abbiamo cominciato ad avvicinarci a questi strumenti. Abbiamo tutti riscontrato qualche difficoltà. Questa commistione di organico, apparentemente strana o anticonformista, in realtà rappresenta semplicemente la naturale evoluzione delle cose.

Nel 2015, con l’ensemble “Duettango”, composto da pianoforte, bandoneon, violino e voce, ha pubblicato un disco importante dedicato ad Astor Piazzolla. Un amore, quello per il compositore argentino, che la porterà ad incidere nel 2020 un album live in coppia con Cesare Chiacchiaretta. Cosa l’affascina di un autore così famoso e determinante nella storia della musica, se si pensi a brani così diversi come Esqualo e Poema valseado?

Nel nostro Paese, in generale nell’Europa occidentale, Piazzolla è considerato un autore da balera, da milonga, il suo genere non viene trattato come nobile. Questo mi affascina; una sfida che mi ha interessato molto e che mi dà quel mordente che serve ad affrontare i progetti con entusiasmo. Sono stato colpito dalla straordinaria complessità del modo in cui lui scrive le sue musiche. È conosciuto principalmente per Libertango, colonna sonora della pubblicità della Vecchia Romagna. Si tratta di una canzoncina che scrisse negli anni Ottanta, quando arrivò in Italia, perché un famoso manager milanese gli disse che per piacere agli italiani avrebbe dovuto scrivere un motivo orecchiabile e facilmente fischiettabile. Lui la scrisse quasi per protesta. In realtà il suo catalogo, che conta migliaia di pezzi, è molto complesso da suonare. Esqualo, ad esempio, è un brano che metterebbe in difficoltà il migliore dei violinisti. Piazzolla era innamorato della pesca e il suo nemico in mare era lo squalo perché amava andare a pesca di squali. Sul palcoscenico il suo nemico era il suo violinista - Fernando Suarez Paz - che era talmente bravo da rubargli la scena; scrisse il pezzo proprio per lui.

Nel 2011 ha fondato l’Orchestra filarmonica della Calabria, una realtà importante per il territorio, con la quale ha inciso, oltre a Stravinskij, anche lo Stabat Mater di Gioacchino Rossini? Qual è il suo rapporto con il compositore pesarese? Quali sono le peculiarità del suo stile che lo hanno reso così celebre?

Credo che la peculiarità dello stile di Rossini sia il modo in cui riesce a scrivere motivi musicali così facili da ascoltare e da capire, ma così complessi nella realizzazione. È forse l’autore più amato nell’opera buffa e il più riconosciuto al livello internazionale. È un compositore molto efficace; la sua musica, oltre che bella e straordinaria, è molto efficace.

Franco Zeffirelli definì l’Opera “un pianeta dove le muse lavorano assieme, battono le mani e celebrano tutte le arti”. Qual è, a suo parere, il futuro dei teatri, anche in merito alla pandemia? Ci sarà effettivamente una ripresa?

Abbiamo vissuto questi due anni di pandemia in maniera drammatica. Abbiamo approfittato di tutti i mezzi possibili per poterci esibire senza il pubblico; ci siamo avvicinati ai social, alle piattaforme. Ma non è la stessa cosa del cinema, ad esempio: quando l’attore e il regista vedono il film a cinema hanno già concluso la loro performance, quindi l’applauso lo prendono, non al momento ma successivamente. Il cinema può essere riprodotto a casa con una piattaforma digitale, con uno stereo importante, con una buona televisione, a costi ormai modici. Il live invece ha bisogno del pubblico. Noi ci siamo esibiti, abbiamo comunque portato avanti la nostra professione, ma non è stata la stessa cosa.

Durante la sua breve ma intensa carriera, oltre ad essersi confrontato con moltissimi operisti, ha inciso Pagliacci di Leoncavallo e Cavalleria rusticana di Mascagni, due opere brevi, spesso presentate insieme, che conservano melodie e arie meravigliose come Vesti la giubba o il celebre Intermezzo. Che emozione si prova a stare in quella buca, o sul palcoscenico, e avere un’orchestra tutta per sé? Cosa si prova nel sentire il potere fra le mani di pensare e ottenere le dinamiche e le sonorità timbriche che si desiderano? Parlando di gestualità e di stile, quali sono i direttori d’orchestra che l’hanno guidata e ispirata maggiormente?

Direi Evgenij Mravinskij, Leopold Stokowski, Wilhelm Furtwängler, Carlos Kleiber. Hanno fatto la storia con le loro esecuzioni ‘differenti’. Noi direttori, nel momento in cui saliamo sulla pedana, ci sentiamo protagonisti; osservati; amati da chi ci ascolta, da chi ha pagato il biglietto. Questo è uno dei motori che consente al teatro di andare avanti.

Nel corso degli anni ha girato il mondo, sia come pianista che alla guida di prestigiose orchestre, solcando grandi palcoscenici, dal Carnegie Hall di New York al Cairo Opera House. Quali sono, se ci sono, le differenze sostanziali tra il suonare da solisti o come componente di una stessa e grande famiglia, e quanto il luogo sia effettivamente determinante nella riuscita finale?

È un approccio diverso sia nell’esibirsi che riguardo le responsabilità. Come diceva Spider-Man: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Sono tutti lì a pretendere che lo spettacolo vada bene per merito tuo o vada male per colpa tua. Quindi è una responsabilità diversa. Il solista se suona male, suona male da solo. Il direttore d’orchestra se fa male il suo lavoro fa suonare male anche tutti gli altri. Ho sentito esponenti di partiti politici, o presunti tali, qualche anno fa, dire che mentre gli altri lavorano sul palco, il direttore agita le mani senza cognizione come fosse una cosa inutile, o addirittura di cui si può fare a meno. Il direttore d’orchestra dà i tempi, dà le dinamiche, dà l’impronta all’opera; nei casi più difficili consente proprio il funzionamento dell’opera lirica. Quindi dipende tutto da quella bacchetta.

Oltre ad una densa attività concertistica, lei insegna pianoforte e direzione d’orchestra presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “Tchaikovsky” di Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro. Quanto è importante la didattica e soprattutto avere la passione per la didattica?

Insegnare è un mestiere completamente diverso. Chi non ha la passione per fare questo lavoro non dovrebbe farlo. Il problema è che nel nostro Paese è difficile fare il musicista senza insegnare. La situazione è sempre più complessa. Le province hanno chiuso e con loro hanno chiuso tutte le orchestre che ne dipendevano. Le associazioni culturali non ricevono più fondi perché nei bilanci dei comuni, grandi e piccoli, tutte le somme destinate alle culture sono state dimezzate o addirittura azzerate. Il nostro non è un Paese che consente di esercitare questa professione in maniera serena, quindi noi tutti ci gettiamo sull’insegnamento perché dà una stabilità economica. A risentire di tutto ciò sono i ragazzi perché, quando entrano in classe, pendono dalle tue labbra, aspettano che tu gli dia la spinta giusta, la passione per continuare. L’insegnante, in questo, ha grandissime responsabilità.

Per un alunno, secondo lei, rispetto al pianoforte o alla chitarra che sono strumenti solistici, imparare uno strumento che magari è presente negli organici orchestrali, può riservare possibilità future maggiori?

Io ho un bimbo di due anni e a volte, se dovesse avere talento per la musica, mi chiedo proprio questo: verso quale strumento potrei indirizzarlo? Probabilmente, a parità di bravura, ha molte più possibilità di inserimento un violoncellista rispetto a un chitarrista. Ai miei studenti pianisti dico sempre di darsi delle alternative: dal pianista accompagnatore alla musica da camera. Ci sono intere generazioni di pianisti italiani che per anni partecipano a importanti concorsi, senza mai qualificarsi alle finali. Nel frattempo, non facendo altro, perdono quel periodo della vita fondamentale che va dai venti a trent’anni. Il risultato è quello di generare schiere di musicisti che tecnicamente suonano bene ma che, non avendo raggiunto il loro risultato, diventano dei grandi frustrati. 

Catanzaro è una città calabrese e, come in tutto il meridione, si fa fatica a far emergere determinate realtà positive e a imporsi a livello nazionale e internazionale. Il Mezzogiorno, peraltro, paga decenni di dominio della criminalità organizzata. In questo, la musica può avere un ruolo vincente di valida e reale alternativa per i giovani?

La qualità e il talento ci sono. Diceva il nonno di un discografico importante - Giulio Cesare Ricci, patron di Fonè - “Livorno è la prima città del sud”. Ho notato che nel nostro Paese non siamo riusciti a superare le distanze pre-garibaldine. Mi spiace dirlo ma sembra che a una certa latitudine le persone hanno l’anello al naso. È diffusa l’idea che le strade mancano, gli ospedali chiudono e la gente non paga le tasse. Di conseguenza, scarseggiano i teatri e le professionalità importanti. Paghiamo ancora lo scotto di una mancanza di risorse umane ed economiche frutto di decenni di mala gestione, dal punto di vista amministrativo e politico. Questo però non significa che manchi il talento, anzi: musicisti del sud sono disseminati in tutti i teatri importanti di Italia. La cultura in generale deve intervenire nella scuola dell’obbligo che è quella che frequentano tutti, e non deve essere obbligatoria solo perché è obbligatorio frequentarla, ma è la scuola che deve avere l’obbligo di formare, a 360 gradi. Noto, ad esempio, che nei piani di studi e nei programmi di scuola - i miei genitori sono due insegnanti - c’è un po’ di superficialità verso la storia contemporanea. I giovani del domani per migliorare il futuro devono conoscere il loro passato, soprattutto quello recente.

Imminente è il ritorno di una nuova edizione del “Fortissimo Festival” che quest’anno avrà luogo presso l’anfiteatro romano di El Jem, in Tunisia. Tantissimi talenti musicali in un confronto necessario tra le due culture musicali. Cosa l’ha spinta a rinnovare la collaborazione con il Maestro Achref Bettibi?

Credo sia un rinnovamento sociale molto importante. Una gran parte del mondo arabo - lo dico per cognizione di causa visto che ho viaggiato molto: Egitto, Turchia, Marocco - rifiuta la musica classica perché viene considerata un esempio di eccessiva occidentalizzazione, quindi in qualche modo crea distacco da quello che per loro è preservare la vera cultura, legata al Corano e alle antiche usanze. Invece poi, c’è tutta un’altra fetta di giovani che vuole intraprendere una carriera e maturare conoscenze diverse. Lo può fare avvicinandosi al nostro mondo. Questa collaborazione consisterà nel creare un’orchestra italo-tunisina che a fine settembre, durante il festival sinfonico di El Jem, metterà in scena Pagliacci di Leoncavallo. La cultura deve unire; l’arte deve unire, non dividere.

Come vede oggi la scena musicale cosiddetta ‘classica’? Quali sono le sue proiezioni per il futuro?

Da qui ai prossimi cinquant’anni, nelle periferie la musica classica scomparirà del tutto se non troviamo un modo di rinnovarla, se non capiamo che anche la classe meno abbiente deve poter venire a teatro. Sono le istituzioni a dover trovare una soluzione perché chi non si può permettere di pagare il biglietto deve avere delle agevolazioni, deve essere preso per mano, per i capelli, in qualsiasi modo, e portato a teatro. Altrimenti assisteremo a un progressivo spopolamento dei luoghi della cultura in generale, compresi i Conservatori perché nessuno più vorrà studiare uno strumento. Le scuole e le famiglie non riescono a formare i giovani collaborando socialmente. Senza di noi, senza di voi, e senza questa professione i teatri chiuderanno e sarà un mondo peggiore di prima.

Annagrazia Marchionni e Francesco Saverio Mongelli  12/05/22

Recensito incontra la giovane scrittrice Ilaria Vigorito. Con lei parliamo del rapporto tra genere fantasy ed attualità, con un'attenzione particolare al mondo di Hayao Miyazaki

Dando un’occhiata alla tua biografia, Ilaria, si nota subito che provieni da studi di Scienze politiche e Relazioni internazionali; alcune delle tue prime pubblicazioni sono state proprio relative a questo ambito. Come concili l’interesse per le dinamiche di realismo - bruto se vogliamo - che dominano la politica internazionale con il mondo del fantasy e del fumetto?

Ho sempre avuto questa dualità fra un interesse per la realtà molto radicato e una passione per la fantasia che mi permette di scappare ogni tanto…

Sono entrata nel mondo dei fumetti relativamente tardi, abbandonandoli nell’adolescenza per poi recuperali in un periodo di crisi, quando capii che la facoltà di giurisprudenza non faceva esattamente per me. Nello stesso periodo mi sono trovata a scoprire i manga in una fumetteria di Salerno, e da lì mi si è aperto un mondo completamente diverso da quello che conoscevo.

C’era un’intensità che mi mancava nei fumetti per ragazzi che leggevo da bambina, e gradualmente ho poi realizzato che di questa forma di narrazione potevo fare un oggetto di studio, costruirci sopra un dialogo.

Quando ho virato sulla facoltà di Scienze politiche ho capito che preferivo focalizzarmi sul ramo della comunicazione, mentre parallelamente mi sono avvicinata al mondo del fantasy sempre più. Proprio perché sul genere manga in Italia erano pressoché inesistenti materiali di stampo accademico, mi sono sentita stimolata e più libera nell’iniziare a trattare qualcosa di cui si parlava poco e su cui non si studiava ancora.

Mi sono comunque trascinata dietro l’interesse per la realtà. Pur amando molto i manga di genere fantastico, quando trovo una storia che è calata nel contesto sociale mi appassiono nell’indagarlo.

Nausicaä è in effetti profondamente inserita nel contesto storico del Giappone, cosa di cui rendi conto nel tuo saggio.

In quest’ottica, se è pacifico che Miyazaki abbia sancito l’elevazione a rango autoriale del racconto animato, pensi che potremmo però parlare anche di dignità di racconto sociale, dell’attualità?

Secondo me sì. Miyazaki è sempre stato un autore molto politico, e ha trasferito questo suo coinvolgimento nei suoi film. Anche in Giappone per un lungo periodo il film d’animazione era considerato un prodotto per bambini, al contrario del genere del manga, che ha assorbito profondamente gli stravolgimenti politici susseguitesi nei decenni e soprattutto negli anni ’70. L’animazione invece, con le sue esigenze di diffusione commerciale, aveva necessità di non restringere il proprio pubblico, cosa che un discorso più politico in qualche misura inevitabilmente comporta.

Miyazaki è invece riuscito a creare un connubio per cui i suoi film possono essere fruiti dai bambini, ma in cui esiste un piano ulteriore che può essere letto da una visione più adulta. In questo modo ha dimostrato che un prodotto d’animazione può parlare a tutti e allo stesso tempo rivolgersi ad ognuno in maniera diversa.

Da noi in questo si fa ancora fatica: la Disney ha creato uno standard che è quello del film per famiglie, e nonostante in molte storie ci siano dei messaggi relativi ad alcuni temi indirizzati anche ad un pubblico adulto, il prodotto animato viene comunque concepito e costruito prettamente come per bambini, con il quale gli adulti possono al massimo divertirsi…

A proposito del confronto con le produzioni occidentali, non può non venire in mente come la rappresentazione del binomio bene/male tenda ad essere costruita in modo nettamente diverso.

La cultura di partenza è sempre importantissima. Miyazaki parte dallo shintoismo e dall’animismo; negli Stati Uniti ha sempre dominato la visione di un “impero del male” contrapposto ad uno del bene, basti pensare alla saga di Star Wars. La visione della colpa - che è ovviamente legata alla religione di partenza - è un altro elemento fondante nel definire le visioni e le rappresentazioni del mondo.

Miyazaki ha sempre voluto affermare come anche chi fa del male abbia le sue ragioni; in questo discorso, di nuovo, il cinema occidentale d’animazione arranca nel rendere conto di una visione più sfaccettata, e ciò comporta che il messaggio trasmesso sia l’esistenza di una contrapposizione noi/loro, un loro verso il quale opporsi.

È vero che nella fiaba questo è un classico, ma, dal momento che le storie hanno mostrato di poter contenere un maggior livello di complessità, è un peccato fermarsi alla semplificazione.

Come si pone questo discorso sulla dualità noi/loro o bene/male rispetto alla rappresentazione della natura in Miyazaki?

A differenza della maggior parte delle rappresentazioni occidentali, la natura di Miyazaki non è angelica, o vittimizzata dall’uomo; ad essa vengono attribuite delle ragioni non sempre “utili” alla nostra specie, ma che vanno concepite come proprie di un qualcosa che è altro rispetto a noi.

Da qui deriva un ecologismo che però non è mai utilitarista. La natura non esiste per noi, questo è ciò che mi sembra Miyazaki faccia trasparire. Il retaggio religioso per cui Dio ha creato e messo la natura a disposizione dell’uomo è opposto alla visione animista che vuole le creature umane una parte del tutto.

Si afferma che affinché un punto d’incontro tra uomo e natura sia possibile, occorre che anche gli uomini diano qualcosa.

Parlando di dualità tra bene e male, esistono esempi occidentali in cui questi fronti opposti sono meno rigidi…mi viene in mente “Avatar, la leggenda dell’ultimo dominatore dell’aria”, una serie di Nickelodeon dei primi 2000 in cui le ragioni di tutti vengono comprese e il cui protagonista decide di non uccidere “il nemico”, riconoscendogli il diritto a vivere.

Questa serie in effetti è stata molto influenzata da Miyazaki e più in generale dal cinema d’animazione giapponese; un’influenza spesso esistente anche in colossal del grande schermo e altrettanto spesso non ammessa.

Un autore come Darren Aronofsky, ad esempio, ha a mio avviso assorbito moltissime suggestioni da Perfect blue, anime datato 1997 di Satoshi Kon, per realizzare il suo Requiem for a dream.

Anche la saga di Matrix deve molto ad esperimenti del cinema giapponese, tra cui si potrebbero citare Akira o Ghost in the Shell. Le sorelle Wachowski hanno espressamente messo in luce queste influenze, ma si tratta piuttosto di un’eccezione.

Per anni diversi registi non hanno voluto ammettere tali prestiti, e qui ci sarebbe da fare un discorso sulla supposta superiorità occidentale. Il dominio culturale statunitense è ancora piuttosto presente qui in Europa, e, per quanto il cinema targato Usa sia stato e sia artefice di prodotti di elevatissima qualità, è importare ricordare che essi parlano della realtà americana.

Ciò che manca in questo momento è una narrazione forte sul nostro vissuto: penso che subiamo troppo questa fascinazione, quando in realtà siamo il Paese del Neorealismo…avremmo sicuramente mezzi e menti per raccontarci, insomma.

Quanto le prime trasposizioni statunitensi di Nausicaä della Valle del Vento hanno subito questo “trapianto” in un terreno culturale così diverso, anche per ciò che concerne gli elementi stilistici?

Negli Stati Uniti degli anni ’80 - ma ciò vale più in generale per il mondo occidentale - il discorso ambientalista non era assolutamente forte e sentito come oggi, il boom economico espletava il suo momento d’oro di consumismo sfrenato, per cui pensare ad una natura che si ribella - quella ribellione che ha plasmato il mondo distopico che Nausicaä abita - sembrava assurdo.

I dettagli stilistici sono sempre anche dettagli culturali. Per fare un esempio, in Giappone ci si riferisce al vento in un modo per cui gli si riconosce uno spirito proprio; per il retroterra culturale e religioso americano ciò non è pienamente concepibile, se non come una forma di paganesimo, e ciò ha influito nella traduzione dell’appellativo con cui appunto nel film i personaggi si rivolgono all’elemento.

Nelle traduzioni si tende a tagliare molti elementi della cultura di partenza; anche nei manga frequentemente vengono americanizzati modi di dire giapponesi. Non è ad esempio rispettato l’uso per cui in Giappone ci si rivolge alle persone con il cognome; è solo quando si arriva ad un certo livello di confidenza che ci si inizia a chiamare per nome. Eliminando questi dettagli apparentemente non significativi si perdono in realtà moltissime sfumature relative all’evoluzione dei rapporti tra personaggi, funzionali alla storia stessa nel suo complesso.

Nel sacrificio finale di Nausicaä sono stati letti riferimenti cristologici o in qualche modo messianici, che idea ti sei fatta tu riguardo questa interpretazione?

Miyazaki l’ha sempre negata: ha parlato di sacrificio “emotivo” piuttosto che cristiano; un sacrificio animista perché in questa cultura è il capo del villaggio che deve sacrificarsi e pagare per difendere la propria comunità. Non è un concetto che equivale all’immolazione cristiana, è più vicino semmai ad una certa accezione di assunzione di responsabilità.

Parlando del confronto con il manga, alcuni fili della trama sono stati inevitabilmente soppressi nel film. Non c’è ad esempio accenno alle differenze di tecnologie e di credenze, anche religiose, che distinguono i vari regni umani presenti nella storia. Quanto si è perso secondo te nel passaggio al prodotto filmico?

Prima di tutto, bisogna chiarire che quando è stato fatto il film non si sapeva ancora come sarebbe andato a finire il fumetto, dal momento che Miyazaki ha portato avanti la sua serializzazione dal 1982 sino al ’94.

Seppur il messaggio finale, relativo alla necessità di imparare a convivere è rimasto, il manga è andato molto oltre. Nel film si ha un finale “felice” perché il conflitto con la natura e anche con il regno di Tolmekia viene ricomposto, nel manga ciò non avviene se non con il sacrificio di molti personaggi di cui nella trasposizione cinematografica non c’è in realtà alcuna traccia.

Il finale del manga è più realista e più maturo rispetto al film, in quanto Miyazaki ha avuto più tempo per approfondire la sua filosofia e per arrivare alla conclusione che una riconciliazione con la natura non è a prescindere sempre e completamente possibile.

Il film si ferma prima, anche perché è figlio degli anni ‘80, un periodo piuttosto positivo anche in Giappone, e perché è prodotto da un Miyazaki più giovane e con una diversa prospettiva, forse più ottimistica. Nel manga c’è molta amarezza, ma allo stesso tempo più umanità, nel personaggio di Nausicaä, che a volte si tira indietro, ha paura, cerca di fuggire alle sue responsabilità. Allo stesso modo il personaggio antagonista di Kushana evolve moltissimo: da soldatessa spietata diviene madre per i suoi soldati ed arriva a comprendere parzialmente le ragioni di Nausicaä così come quelle della natura; lei che la odiava, capisce che non può distruggere ciò che non comprende.

In definitiva penso che il fumetto aggiunga molto, e direi che farne una serie televisiva sarebbe bellissimo, anche perché, di fatto, è una storia (purtroppo) perfetta per il momento storico che viviamo.

fotoGiunte a questo momento, è difficile non chiederlo: come mai proprio Nausicaä?

Due motivi, uno più tecnico e uno più emotivo. Nausicaä è stato uno dei primi manga che ho letto e mi ha colpito moltissimo perché la protagonista femminile si discostava dalle tipiche principesse disneyane: si metteva in discussione, combatteva, il suo scopo era portare avanti un certo tipo di lotta. Essendo cresciuta con l’abitudine di incontrare unicamente personaggi maschili con questo tipo di percorso, ero rimasta piacevolmente sorpresa.

Sono inoltre appassionata di fantascienza e vedere coniugata la distopia con il tema ambientalista mi ha affascinata. Dal punto di vista tecnico/stilistico mi ha offerto la possibilità di vedere come si comporta uno stesso autore quando deve raccontare una stessa storia per il fumetto e per un film, apprezzando le differenze e gli espedienti a cui è ricorso. Nel manga è stato molto più libero, mentre nel film ha avuto tempi molto più ristretti, senza contare che ha avuto a che fare con quello che è inevitabilmente un lavoro più corale e ha che dovuto e creare un prodotto che fosse appetibile commercialmente.

Ho visto come la stessa storia cambia profondamente quando diventa un lavoro collettivo che deve sottostare ad esigenze di tipo produttivo e commerciale.

Il manga è invece profondamente autoriale; Miyazaki ha potuto farne ciò che voleva, e questo ha fatto in modo che diventasse un prodotto piuttosto di nicchia, ma anche con dei difetti: non sempre alcuni passaggi sono chiari. Spesso ci sono salti temporali non esplicitati, oppure qualcosa che accade fuori scena e di cui viene mostrato solo il risultato dell’avvenimento.

È però un “bel difetto” perché permette di capire come si comporta un autore quando non deve scendere a compromessi.

Nell’ultimo film di Miyazaki, Si alza il vento, sembra che il discorso sul rapporto tra tecnica e natura arrivi in qualche modo a maturazione; l’elemento del vento è un po’ il filo conduttore che lega molti dei suoi film, a partire senza dubbio da Nausicaä … come leggi tu in questa prospettiva di continuità il verso di Paul Valery “Le vent se lève, Il faut tenter de vivre…” con il quale il film inizia?

Penso che con Si alza il vento Miyazaki sia andato verso gli estremi; ha, cioè, scelto di eliminare completamente l’elemento della magia per dare spazio completo alla realtà.

Si è avvicinato molto a Il mio vicino Totoro, che, sebbene avesse in sé una forte componente magica, era però profondamente intimo. Indirettamente Miyazaki parlava della sua infanzia: sua madre era stata malata così come quella delle due bambine protagoniste, così che nella crisi delle due piccole protagoniste c’è molto del suo vissuto. È un film che può essere accostato alla produzione di Isao Takahata, autore di opere come La tomba delle lucciole, che è a mio avviso Neorealismo puro, applicato all’animazione.

Questa diversità di Si alza il vento rispetto alle opere precedenti è sintomo della sua capacità di regista di non fermarsi ad una sola prospettiva. Doveva essere il suo ultimo film e - sebbene non lo sia stato perché sappiamo che sta attualmente lavorando a qualcosa di nuovo - credo che anche per questo volesse fare un film che parlasse quasi più a sé stesso che al pubblico.

Per quanto riguarda l’elemento del vento, ha molto a che fare con la concezione animista, ma anche con le tradizioni giapponesi che Miyazaki ha assorbito nel corso della sua infanzia, come i tipici teatrini di carta o le classiche lanterne. Questi elementi hanno influito sul suo modo di guardare all’animazione, soprattutto per ciò che riguarda la resa della velocità. L’approccio utilizzato si sposa alla perfezione con il suo tipo di narrazione perché trasmette una sorta di tranquillità del fluire.

È il livello stilistico che si coniuga perfettamente con quello contenutistico.

Partendo da una scarsità di budget Miyazaki ha capito che si potesse fare film in modo diverso, tant’è che parla di “manga animati” riferendosi ai suoi film, e non anime.

Diego, consegne a domicilio” è il primo episodio del tuo podcast “Una giornata a Lossarno”, ed è impossibile non fare caso alla citazione… anche qui - come nel tuo romanzo Ganymedian Meltdown - coniughi una buona dose di fantasia e distopia a molti elementi di contesto assolutamente reali. Il dominio delle app di delivery, la precarietà lavorativa ed esistenziale giovanile, senza dimenticare che è stato scritto proprio nel marzo 2020.

Ne risulta un connubio sorprendente di fantasia e di realismo che sfiora la critica sociale; a questo proposito vorrei chiederti anzitutto com’è nato “Una giornata a Lossarno” e quali siano le tue fonti d’ispirazione nell’inventare i racconti.

Ascolto podcast americani come Welcome to Night Vale”, ambientato in una cittadina fittizia del Nevada, dove a situazioni surreali e al limite dell’assurdo gli autori inseriscono riferimenti alla società americana.

Mi piaceva molto questa dualità fra fantastico e vita quotidiana e ho voluto riprodurla pensando ai luoghi in cui sono cresciuta, e quindi ambientandolo in una tipica cittadina del sud italiano. C’è molto del posto dove sono cresciuta nel podcast.

Mia sorella Viviana, appassionata come me di manga, studia doppiaggio ed è quindi lei ad essere l’interprete, oltre a gestire la parte legata al suono.

Viviana: Io mi sono occupata del lato tecnico: la registrazione delle puntate, il montaggio audio; ma al tempo stesso è stata una maniera per esercitarmi in ciò che studio in una veste diversa. Il podcast è stato un mezzo per ampliare i miei campi e la mia visione del doppiaggio.

Ilaria: Ill podcast è nato durante la pandemia e ne è stato profondamente influenzato. “Diego consegne a domicilio,” il primissimo episodio, è nato ovviamente pensando ai rider che si muovevano nel deserto del lockdown e nel disagio profondo, anche economico. Ho pensato quindi di mettere insieme fantastico e realistico e tirarne fuori delle storie.

Quindi sei partita dal voler raccontare un elemento della realtà più che da un input di fantasia?

Esatto, sono partita da questo anche nel mio romanzo. I personaggi si muovono spesso in metro perché è lì che è nato, nella mia mente. Era il 2011 e c’era stato l’incidente di Fukushyima in Giappone, mentre passarono in tv Sindrome cinese, dove si parla appunto di una crisi in una centrale nucleare che rischia di esplodere. Il mio pensiero è stato “ok, e se tutto questo lo riportassi alla fantascienza?” Sono una grande lettrice di Isaac Asimov e non potrei non esserne influenzata. Mi piace molto inventare dei mondi e poi metterci dentro delle situazioni vicine a noi. Se facessi un racconto radicato nella sola realtà, come scrittrice mi annoierei un po’… Noto invece che con la fantasia si riesce molto più facilmente a veicolare messaggi anche a chi non è inizialmente disposto a riceverne. Si viene presi dalla storia e poi ci si rende conto che oltre alla trama c’è qualcosa in più.

I racconti del podcast saranno (o magari sono già) traposti in una raccolta scritta o se vuoi che rimangano unicamente legati alla dimensione orale?

Pensavo ad una seconda stagione sempre in questo filone. Ho già pronte storie ambientate in luoghi come call center o grandi magazzini, per fare qualche anticipazione…

Vorremmo fare un piccolo spin off che possa essere trasformato in un audio libro, sempre per restare in collaborazione con Viviana. Anche perché lei mi aiuta a riadattare ciò che scrivo affinché funzioni in formato audio.

Cosa ci dici riguardo ulteriori progetti futuri?

Sul versante saggistico vorrei proseguire sullo studio dell’animazione giapponese.

Mi piacerebbe analizzare la triade dei nuovi registi Makoto Shinkai, Mamoru Hosoda e Masaaki Yuasa, autori di prodotti di successo internazionale come Your Name (di Shinkai), che ha assolutamente sbancato sulle piattaforme, o Belle di Hosoda, presentato anche a Cannes.

Sono in qualche modo figli di Miyazaki, nel senso che sono arrivati al mondo della regia anche guardando i suoi film. Qualcuno di loro ha collaborato con lui, qualcun altro ci ha litigato… Sicuramente creano cose molto interessanti inserendo il fantastico nella vita quotidiana per inventare storie e mi fa molto piacere che ci siano dei registi giovani che stiano reinterpretando il suo discorso. Mi piacerebbe poi affrontare una monografia sull’evoluzione del personaggio di Fujiko nel corso dei quarant’anni di rielaborazioni della saga di Lupin.

Dal punto di vista dei romanzi, quello che ho già scritto dovrebbe essere il primo di una serie, ho quindi in mente un giallo fantascientifico ambientato su Venere nello stesso periodo di Ganymedian Meltdown, affrontando però temi diversi.

Quasi un’epopea su una possibile nuova ripopolazione umana?

Esatto! Ho una complessa linea temporale che vorrei sviluppare ma ci vorrà tempo, perché le idee sono tante.

Arianna Cerone  13/05/2022

Pagina 7 di 130

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM