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La musica che gira intorno: conversazione con Filippo Arlia

Credevate fosse impossibile? Ebbene non lo è. Filippo Arlia, classe 1989, è la dimostrazione che l’impegno e la dedizione premiano sempre. Calabrese, diplomato al Conservatorio “Fausto Torrefranca” di Vibo Valentia a soli 17 anni e con il massimo dei voti, è tra i più giovani e brillanti pianisti e direttori d’orchestra in Italia. Laureato anche in Giurisprudenza, ha calcato importanti palcoscenici internazionali suonando più di quattrocento concerti, da solista e come direttore. Dal 2006 ha scelto di investire il suo tempo e il suo amore per la musica attraverso l’insegnamento: è attualmente docente di pianoforte e di direzione d’orchestra presso il Conservatorio di Musica “P.I. Tchaikovsky” di Catanzaro. Nel 2011 ha fondato la prima Orchestra Filarmonica della Calabria. All’alba di una nuova edizione del “Fortissimo Festival”, da lui nuovamente diretto, ripercorriamo assieme la sua carriera, con uno sguardo ai progetti futuri.

Com’è nata la sua passione per la musica e qual è stato il suo percorso in Conservatorio?

La mia è una famiglia di musicisti. Ho cominciato a suonare il pianoforte a 5 anni e, in età adolescenziale, ho capito che avrei fatto questo nella vita. Ho come l’impressione che oggi molti ragazzi vengano al Conservatorio già con l’obiettivo di procacciare una professione futura. Dopo aver compiuto gli studi in maniera del tutto spontanea e naturale, cominciando a fare i primi concerti ho preso consapevolezza del mio amore verso il palcoscenico e da lì è nata l’ambizione. Contemporaneamente ho studiato Legge - per coerenza ho portato a termine il percorso - ma sapevo che quella non sarebbe stata la mia strada.

Ha scelto di dedicare la sua prima e importante tournee europea al compositore americano George Gershwin. Come è nata questa decisione? Il suo viaggio al fianco dell’autore di Rhapsody in Blue è proseguito nel 2014 con il pianista jazz Michel Camilo e nel 2019 con Stefano Bollani.

È un mio grande rimpianto non aver studiato jazz. Si tratta di un linguaggio che avvicina tantissimo i più giovani sia al teatro che al mondo dello spettacolo in generale. In questo, Gershwin è stato un maestro: attraverso le sue armonie, le colonne sonore, la sua musica ‘completamente scritta’, semplice da ascoltare e da far capire, è riuscito a creare un ponte tra musica jazz e musica classica. A volte non per forza le cose più difficili risultano essere le più efficaci.

Restando nell’ambito del jazz, la tradizione pianistica conta nomi illustri: Bill Evans, Thelonious Monk, Dave Brubeck, Chick Corea, Keith Jarrett. Ci sono dei caratteri di questo genere che più l’affascinano? Quanto è importante per un musicista essere versatili? Negli ambienti più classici e puristi dei Conservatori, accusa ancora un certo ‘snobismo’ nei confronti di questi generi, come anche il pop?

Sono innamorato del jazz; forse ho più dischi e vinili di jazz che di musica classica. Probabilmente è un mondo con meno pregiudizi e stereotipi rispetto a quello della musica classica. Ho da poco concluso la Carmen di Bizet al Politeama di Catanzaro; la replicheremo anche quest’estate nei Teatri di Pietra siciliani. A mio parere è stato un debutto magnifico, eppure ho sentito cultori della lirica criticare i tempi musicali ‘differenti dai soliti’. Per me è una nota positiva; significa che si è dato un tocco di originalità e di personalità alla musica. Purtroppo, nel mondo della musica classica, queste ‘trasgressioni’ sono viste spesso con accezione negativa. Ritengo che ci sia stato un mondo, legato ai Conservatori e alla tradizione musicale purista, che negli ultimi decenni tendeva ad allontanare l’essere esageratamente versatili dai teatri. La verità - ed è una cosa storica - è che le novità vengono sempre accolte con un po’ di dubbio, di diffidenza. Il mondo classico deve assolutamente sdoganare questa problematica se davvero vuole prendere il volo e se vuole avvicinarsi ai più giovani, perché il futuro sono loro: un teatro vuoto, secondo me, non piace a nessuno. Oggi la musica ha bisogno di un rinnovamento. È troppo facile nascondersi dietro il fatto che alla prima del Teatro alla Scala ci sia il sold-out. L’Italia deve essere percorsa in lungo e in largo e la musica classica non fa proprio parte del tessuto sociale italiano dei nostri ragazzi. I nostri giovani, a volte, non sanno minimamente dell’esistenza di un luogo antico di aggregazione sociale nel quale l’artista esegue la sua performance live. Conoscono bene il cinema, pagano il biglietto, hanno presente chi sono gli attori, magari anche il regista, ma non sanno che esiste lo spettacolo ‘dal vivo’ che, oltre ad essere quello dei concerti di musica pop, è anche e soprattutto quello teatrale. Tutto ciò che è commerciale fa notizia perché il sistema economico ha stabilito così. Bisognerebbe prestare maggiore attenzione per far sì che la voce del teatro arrivi anche ai nostri giovani. Un ragazzo che va a teatro, che entra in un museo o che compra un disco senza dubbio è un ragazzo migliore.

Nel 2018 ha inciso, nell’adattamento orchestrale di Ravel, la celebre suite Quadri di un'esposizione di Mussorgsky. Alcune parti di quest’opera, nel 1971, sono state rielaborate e presentate in chiave rock dagli Emerson, Lake & Palmer. Sono tanti gli esempi di artisti che hanno rivisitato brani di musica classica: dai Metallica con la Quinta sinfonia di Beethoven alla pfm con Mozart. Come giudica questi esperimenti? Pensa che approcciarsi alla musica classica con strumenti moderni possa essere una chiave per (far) scoprire determinati repertori ancora sconosciuti?

Assolutamente sì. Potrei portare un esempio banalissimo: l’anno scorso si sono celebrati i 100 anni dalla nascita di Astor Piazzolla. Negli anni Settanta lui ha cominciato a usare gli strumenti elettronici: la batteria elettrica, il violino elettrico, la chitarra elettrica e anche l’Organo Hammond, strumento molto utilizzato nei nuovi linguaggi. Noi suoniamo Piazzola con il “Duettango”, un progetto che sostengo da tempo, e l’anno scorso abbiamo cominciato ad avvicinarci a questi strumenti. Abbiamo tutti riscontrato qualche difficoltà. Questa commistione di organico, apparentemente strana o anticonformista, in realtà rappresenta semplicemente la naturale evoluzione delle cose.

Nel 2015, con l’ensemble “Duettango”, composto da pianoforte, bandoneon, violino e voce, ha pubblicato un disco importante dedicato ad Astor Piazzolla. Un amore, quello per il compositore argentino, che la porterà ad incidere nel 2020 un album live in coppia con Cesare Chiacchiaretta. Cosa l’affascina di un autore così famoso e determinante nella storia della musica, se si pensi a brani così diversi come Esqualo e Poema valseado?

Nel nostro Paese, in generale nell’Europa occidentale, Piazzolla è considerato un autore da balera, da milonga, il suo genere non viene trattato come nobile. Questo mi affascina; una sfida che mi ha interessato molto e che mi dà quel mordente che serve ad affrontare i progetti con entusiasmo. Sono stato colpito dalla straordinaria complessità del modo in cui lui scrive le sue musiche. È conosciuto principalmente per Libertango, colonna sonora della pubblicità della Vecchia Romagna. Si tratta di una canzoncina che scrisse negli anni Ottanta, quando arrivò in Italia, perché un famoso manager milanese gli disse che per piacere agli italiani avrebbe dovuto scrivere un motivo orecchiabile e facilmente fischiettabile. Lui la scrisse quasi per protesta. In realtà il suo catalogo, che conta migliaia di pezzi, è molto complesso da suonare. Esqualo, ad esempio, è un brano che metterebbe in difficoltà il migliore dei violinisti. Piazzolla era innamorato della pesca e il suo nemico in mare era lo squalo perché amava andare a pesca di squali. Sul palcoscenico il suo nemico era il suo violinista - Fernando Suarez Paz - che era talmente bravo da rubargli la scena; scrisse il pezzo proprio per lui.

Nel 2011 ha fondato l’Orchestra filarmonica della Calabria, una realtà importante per il territorio, con la quale ha inciso, oltre a Stravinskij, anche lo Stabat Mater di Gioacchino Rossini? Qual è il suo rapporto con il compositore pesarese? Quali sono le peculiarità del suo stile che lo hanno reso così celebre?

Credo che la peculiarità dello stile di Rossini sia il modo in cui riesce a scrivere motivi musicali così facili da ascoltare e da capire, ma così complessi nella realizzazione. È forse l’autore più amato nell’opera buffa e il più riconosciuto al livello internazionale. È un compositore molto efficace; la sua musica, oltre che bella e straordinaria, è molto efficace.

Franco Zeffirelli definì l’Opera “un pianeta dove le muse lavorano assieme, battono le mani e celebrano tutte le arti”. Qual è, a suo parere, il futuro dei teatri, anche in merito alla pandemia? Ci sarà effettivamente una ripresa?

Abbiamo vissuto questi due anni di pandemia in maniera drammatica. Abbiamo approfittato di tutti i mezzi possibili per poterci esibire senza il pubblico; ci siamo avvicinati ai social, alle piattaforme. Ma non è la stessa cosa del cinema, ad esempio: quando l’attore e il regista vedono il film a cinema hanno già concluso la loro performance, quindi l’applauso lo prendono, non al momento ma successivamente. Il cinema può essere riprodotto a casa con una piattaforma digitale, con uno stereo importante, con una buona televisione, a costi ormai modici. Il live invece ha bisogno del pubblico. Noi ci siamo esibiti, abbiamo comunque portato avanti la nostra professione, ma non è stata la stessa cosa.

Durante la sua breve ma intensa carriera, oltre ad essersi confrontato con moltissimi operisti, ha inciso Pagliacci di Leoncavallo e Cavalleria rusticana di Mascagni, due opere brevi, spesso presentate insieme, che conservano melodie e arie meravigliose come Vesti la giubba o il celebre Intermezzo. Che emozione si prova a stare in quella buca, o sul palcoscenico, e avere un’orchestra tutta per sé? Cosa si prova nel sentire il potere fra le mani di pensare e ottenere le dinamiche e le sonorità timbriche che si desiderano? Parlando di gestualità e di stile, quali sono i direttori d’orchestra che l’hanno guidata e ispirata maggiormente?

Direi Evgenij Mravinskij, Leopold Stokowski, Wilhelm Furtwängler, Carlos Kleiber. Hanno fatto la storia con le loro esecuzioni ‘differenti’. Noi direttori, nel momento in cui saliamo sulla pedana, ci sentiamo protagonisti; osservati; amati da chi ci ascolta, da chi ha pagato il biglietto. Questo è uno dei motori che consente al teatro di andare avanti.

Nel corso degli anni ha girato il mondo, sia come pianista che alla guida di prestigiose orchestre, solcando grandi palcoscenici, dal Carnegie Hall di New York al Cairo Opera House. Quali sono, se ci sono, le differenze sostanziali tra il suonare da solisti o come componente di una stessa e grande famiglia, e quanto il luogo sia effettivamente determinante nella riuscita finale?

È un approccio diverso sia nell’esibirsi che riguardo le responsabilità. Come diceva Spider-Man: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Sono tutti lì a pretendere che lo spettacolo vada bene per merito tuo o vada male per colpa tua. Quindi è una responsabilità diversa. Il solista se suona male, suona male da solo. Il direttore d’orchestra se fa male il suo lavoro fa suonare male anche tutti gli altri. Ho sentito esponenti di partiti politici, o presunti tali, qualche anno fa, dire che mentre gli altri lavorano sul palco, il direttore agita le mani senza cognizione come fosse una cosa inutile, o addirittura di cui si può fare a meno. Il direttore d’orchestra dà i tempi, dà le dinamiche, dà l’impronta all’opera; nei casi più difficili consente proprio il funzionamento dell’opera lirica. Quindi dipende tutto da quella bacchetta.

Oltre ad una densa attività concertistica, lei insegna pianoforte e direzione d’orchestra presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “Tchaikovsky” di Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro. Quanto è importante la didattica e soprattutto avere la passione per la didattica?

Insegnare è un mestiere completamente diverso. Chi non ha la passione per fare questo lavoro non dovrebbe farlo. Il problema è che nel nostro Paese è difficile fare il musicista senza insegnare. La situazione è sempre più complessa. Le province hanno chiuso e con loro hanno chiuso tutte le orchestre che ne dipendevano. Le associazioni culturali non ricevono più fondi perché nei bilanci dei comuni, grandi e piccoli, tutte le somme destinate alle culture sono state dimezzate o addirittura azzerate. Il nostro non è un Paese che consente di esercitare questa professione in maniera serena, quindi noi tutti ci gettiamo sull’insegnamento perché dà una stabilità economica. A risentire di tutto ciò sono i ragazzi perché, quando entrano in classe, pendono dalle tue labbra, aspettano che tu gli dia la spinta giusta, la passione per continuare. L’insegnante, in questo, ha grandissime responsabilità.

Per un alunno, secondo lei, rispetto al pianoforte o alla chitarra che sono strumenti solistici, imparare uno strumento che magari è presente negli organici orchestrali, può riservare possibilità future maggiori?

Io ho un bimbo di due anni e a volte, se dovesse avere talento per la musica, mi chiedo proprio questo: verso quale strumento potrei indirizzarlo? Probabilmente, a parità di bravura, ha molte più possibilità di inserimento un violoncellista rispetto a un chitarrista. Ai miei studenti pianisti dico sempre di darsi delle alternative: dal pianista accompagnatore alla musica da camera. Ci sono intere generazioni di pianisti italiani che per anni partecipano a importanti concorsi, senza mai qualificarsi alle finali. Nel frattempo, non facendo altro, perdono quel periodo della vita fondamentale che va dai venti a trent’anni. Il risultato è quello di generare schiere di musicisti che tecnicamente suonano bene ma che, non avendo raggiunto il loro risultato, diventano dei grandi frustrati. 

Catanzaro è una città calabrese e, come in tutto il meridione, si fa fatica a far emergere determinate realtà positive e a imporsi a livello nazionale e internazionale. Il Mezzogiorno, peraltro, paga decenni di dominio della criminalità organizzata. In questo, la musica può avere un ruolo vincente di valida e reale alternativa per i giovani?

La qualità e il talento ci sono. Diceva il nonno di un discografico importante - Giulio Cesare Ricci, patron di Fonè - “Livorno è la prima città del sud”. Ho notato che nel nostro Paese non siamo riusciti a superare le distanze pre-garibaldine. Mi spiace dirlo ma sembra che a una certa latitudine le persone hanno l’anello al naso. È diffusa l’idea che le strade mancano, gli ospedali chiudono e la gente non paga le tasse. Di conseguenza, scarseggiano i teatri e le professionalità importanti. Paghiamo ancora lo scotto di una mancanza di risorse umane ed economiche frutto di decenni di mala gestione, dal punto di vista amministrativo e politico. Questo però non significa che manchi il talento, anzi: musicisti del sud sono disseminati in tutti i teatri importanti di Italia. La cultura in generale deve intervenire nella scuola dell’obbligo che è quella che frequentano tutti, e non deve essere obbligatoria solo perché è obbligatorio frequentarla, ma è la scuola che deve avere l’obbligo di formare, a 360 gradi. Noto, ad esempio, che nei piani di studi e nei programmi di scuola - i miei genitori sono due insegnanti - c’è un po’ di superficialità verso la storia contemporanea. I giovani del domani per migliorare il futuro devono conoscere il loro passato, soprattutto quello recente.

Imminente è il ritorno di una nuova edizione del “Fortissimo Festival” che quest’anno avrà luogo presso l’anfiteatro romano di El Jem, in Tunisia. Tantissimi talenti musicali in un confronto necessario tra le due culture musicali. Cosa l’ha spinta a rinnovare la collaborazione con il Maestro Achref Bettibi?

Credo sia un rinnovamento sociale molto importante. Una gran parte del mondo arabo - lo dico per cognizione di causa visto che ho viaggiato molto: Egitto, Turchia, Marocco - rifiuta la musica classica perché viene considerata un esempio di eccessiva occidentalizzazione, quindi in qualche modo crea distacco da quello che per loro è preservare la vera cultura, legata al Corano e alle antiche usanze. Invece poi, c’è tutta un’altra fetta di giovani che vuole intraprendere una carriera e maturare conoscenze diverse. Lo può fare avvicinandosi al nostro mondo. Questa collaborazione consisterà nel creare un’orchestra italo-tunisina che a fine settembre, durante il festival sinfonico di El Jem, metterà in scena Pagliacci di Leoncavallo. La cultura deve unire; l’arte deve unire, non dividere.

Come vede oggi la scena musicale cosiddetta ‘classica’? Quali sono le sue proiezioni per il futuro?

Da qui ai prossimi cinquant’anni, nelle periferie la musica classica scomparirà del tutto se non troviamo un modo di rinnovarla, se non capiamo che anche la classe meno abbiente deve poter venire a teatro. Sono le istituzioni a dover trovare una soluzione perché chi non si può permettere di pagare il biglietto deve avere delle agevolazioni, deve essere preso per mano, per i capelli, in qualsiasi modo, e portato a teatro. Altrimenti assisteremo a un progressivo spopolamento dei luoghi della cultura in generale, compresi i Conservatori perché nessuno più vorrà studiare uno strumento. Le scuole e le famiglie non riescono a formare i giovani collaborando socialmente. Senza di noi, senza di voi, e senza questa professione i teatri chiuderanno e sarà un mondo peggiore di prima.

Annagrazia Marchionni e Francesco Saverio Mongelli  12/05/22

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