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Roberto Scarpetti racconta a Recensito il suo “28 battiti”

Viviamo in una società in cui il consenso degli altri è fondamentale, in cui bisogna sempre essere perfetti, primeggiare, vincere e in qualche nodo negare la propria indole. Eppure sbagliare è umano e proprio da uno sbaglio può arrivare anche la salvezza, si può tornare di nuovo a stare bene con se stessi. “28 battiti”, il nuovo spettacolo di Roberto Scarpetti, interpretato da Giuseppe Sartori, in scena al Teatro India dal 9 al 20 novembre, affronta proprio questa tematica: il rifiuto della fama come unico mezzo per ottenere il proprio appagamento e l’autentica conoscenza di se stessi. Scarpetti, drammaturgo di spiccata sensibilità, già autore di “Viva l’Italia. Le morti di Fausto e Iaio”, vincitore del premio Franco Enriquez 2014, del collettivo “Ritratto di una Capitale” e del più recente “Prima della bomba”, torna sulla scena con un lavoro molto toccante e attuale che, prendendo spunto dalla vicenda del caso Schwazer, marciatore olimpico squalificato per doping, crea un monologo, un flusso di coscienza che risuona come una poesia che invita a liberarsi dalle costrizioni e a vivere assecondando le proprie inclinazioni. Un caso particolare diventa così metafora di un messaggio universale.003sartori
In questa intervista Roberto Scarpetti racconta la nascita e l’ideazione del suo toccante spettacolo, di cui cura anche la regia, offrendo spunti di riflessione sul mondo del teatro e la società odierna.

“28 battiti” sono i battiti lenti di un atleta, un atleta che in qualche modo sceglie il doping per salvarsi, abbandonare la fama e la “gabbia” del successo. Come è nata l’ ispirazione per questo testo? E perché proprio il mondo dello sport?
“Questo processo salvifico è inconscio. C’è la scelta del doping dettata da tutte le pressioni che un atleta subisce sul proprio corpo, sulle performance e sugli obiettivi che deve raggiungere. È una scelta concreta e vagliata, che inizia con una necessità, si trasforma in un incubo e solo più avanti, elaborandola, lo porta alla consapevolezza che quella scelta sbagliata lo può salvare, perché attraverso l’errore si può liberare di tutte le cose che non ha mai voluto e ha dovuto accettare a causa delle sue doti fisiche, delle sue qualità, di quello che il suo corpo è sempre stato in grado di sostenere e sopportare, della fatica e la resistenza che l’hanno portato ad essere campione olimpico. L’ispirazione nasce quattro anni fa ai tempi della prima positività di Schwazer, che mi ha molto colpito per la sincerità con cui lui stesso aveva ammesso tutto quello. Ora però la vicenda di rimane legata solo a un ambito tematico d’ispirazione. Il monologo non racconta, ma diventa altro, una metafora, una rappresentazione drammaturgica. L’atleta in scena si chiama Giuseppe come l’interprete Giuseppe Sartori; ero interessato da subito a poter raccontare attraverso questa vicenda un processo salvifico di liberazione, con la consapevolezza che può passare sul corpo di tutti e quindi, raccontando anche l’ossessione del corpo, aprire in qualche maniera lo spettacolo a tanti aspetti della vita umana non necessariamente legati allo sport. La sensazione di vivere ingabbiati in ruoli particolari, in qualcosa che dobbiamo fare, nei risultati che dobbiamo ottenere, è una sensazione che proviamo tutti e con questo allargamento tematico il monologo arriva a parlare di altro. Il doping si trasforma allora in una metafora di tutte quelle cose che la società ci spinge a essere”.

Sia in “28 battiti” che in “Prima della Bomba” affronti tematiche attuali, parli di giovani e di crisi. Credi quindi che il teatro sia un mezzo di analisi della società, di denuncia e anche di salvezza?
“Secondo me il teatro è un luogo di elaborazione di quello che siamo. Le storie che accadono intorno a noi, sia quelle più vicine e che quelle più distanti, possono essere sempre rappresentative di qualcosa che sta succedendo. E quindi nel momento in cui si sceglie di raccontare qualcosa legato all’attualità, alla cronaca, per forza di cose quella storia deve essere in qualche maniera un’elaborazione che possa portare una lezione. Per questo non ho raccontato Schwazer, altrimenti sarebbe rimasto cronaca”.

001sartoriI protagonisti di “28 battiti” e di “Prima della bomba” hanno delle analogie?
“Sì, sono due giovani italiani che vivono una crisi e il modo in cui la vivono è però molto differente nei due testi, ma anche la crisi stessa. Quella di Davide di Prima della bomba è essenzialmente una crisi sociale o tra virgolette sociologica, cioè è quello che vede intorno a se che non lo fa sentire in qualche modo accettato. Questa sua crisi lo porta a cercare un senso di appartenenza altrove e nel momento in cui lo trova non fa nessun tipo di elaborazione sul suo percorso, sul suo malessere, gli basta, e questo lo rende estremamente fragile, perché non è consapevole di ciò che ha fatto, tanto è vero che poi viene manipolato da chi è interessato a utilizzarlo come un’arma e non come una persona. Invece Giuseppe vive una crisi molto più interiore, più profonda, retaggio che lo porta a stare male anche fisicamente; proprio questa analisi lo porta riflettere e a sbagliare come Davide. Ma lo sbaglio che lui fa è un intervento profondo sulla sua pelle, sul suo corpo, per cui c’è un malessere ancora maggiore che riesce a cambiarlo, rielaborando il disagio e le scelte che ha fatto”.

Giuseppe Sartori incarna perfettamente il ruolo del protagonista. Come è nata la scelta dell’interprete?
“Ho scritto il monologo quattro anni fa, molto prima di incontrare Giuseppe che ho conosciuto solo due anni fa. Quando poi l’ho visto recitare ho capito che cosa è in grado di trasmettere attraverso la sua fisicità. È perfetto per questo spettacolo, è molto intenso”.

A differenza degli spettacoli precedenti, in “28 battiti” curi anche la regia. Come è stato gestire un tuo testo dal punto di vista registico?
“Avevo fatto delle cose piccole di regia un po' di tempo fa, ma questo è un lavoro molto più potente. La regia di un monologo è molto differente della regia di un testo teatrale più articolato, quindi avevo in mente delle immagini, un percorso che era strettamente correlato al mia natura d’autore. Mi sono posto più come l’autore che riesce a interpretare il senso di quello che è scritto e portarlo in scena. Il mio lavoro principale di regia è stato il lavoro con l’attore e sull’attore, guidarlo verso questo cammino d’interpretazione, analisi ed esplicitazione dei vari temi e delle varie suggestioni che ci sono nel monologo”.

Maresa Palmacci 08/11/2016

La foto di scena (Giuseppe Sartori) è di Achille Le Pera

Una vita tra scrittura e recitazione: Giuseppe Manfridi si racconta a Recensito

Giuseppe Manfridi è un artista in perfetto equilibrio tra parola e interpretazione, tra scrittura e recitazione, che si destreggia abilmente e con successo come affermato drammaturgo e attore. Franco Cordelli nel ’91, sull’Europeo, lo definì il capofila della nuova drammaturgia italiana. Manfridi è un autore che con i suoi testi ha dato e dà tutt’ora un apporto alla storia del teatro italiano, ma è anche un attore di profondo spessore e classe, come si è potuto notare recentemente in “Americani” di David Mamet, con la regia di Sergio Rubini. Tra un lavoro e l'altro ha deciso di raccontarsi in questa intervista ai lettori di Recensito, svelando i particolari dei suoi progetti attuali e futuri.

È stato interprete fino a qualche giorno fa, al Teatro Eliseo, di “AmericanI”, spettacolo del premio Pulitizer David Mamet sulla crisi dei valori economici e sulla competitività della società americana. Una drammaturgia di botta e risposta, con un personaggio che parla attraverso silenzi e pause. Com’è stato approcciarsi a questo testo? E qual è stato il percorso di caratterizzazione del personaggio?
“Ho amato moltissimo il dovermi creare una vera e propria drammaturgia dei silenzi. Questo soprattutto nella prima scena in cui debbo dar vita a un personaggio che, passando dal rifiuto iniziale nei confronti di un vicino di tavolo, a un pub, 001manfridiintenzionato a irretirlo con proposte di acquisti immobiliari, si fa mano mano convincere, sino a cedergli completamente. E’ stato come vivere un prolungato e vitale piano di ascolto. In seguito, lo stesso personaggio è costretto a deludere quel venditore che lo ha tanto affascinato poiché costretto dalla moglie a rescindere il contratto. In quest’altra scena mi trovo come precipitato in una seduta analitica, e debbo dire che a molto è valsa la grande empatia tra me e Francesco Montanari, attore magnifico, con cui si è stabilita una spontanea facilità di comunicazione scenica. E voglio aggiungere che Sergio Rubini, anche regista dello spettacolo, mi ha messo nelle condizioni ideali per rendere al meglio il tutto tondo del mio personaggio."

Diverso è invece lo spettacolo che è in scena al Teatro Lo Spazio, “Ti amo Maria in jazz”, una sua commedia in cui amore e musica si fondono. La pièce debuttò nel ’90. Come mai questa ripresa? Ci sono state delle modifiche?
"Le modifiche ci sono state, ma non per correggere il testo a distanza di tempo. La commedia rimane quella che scrissi tanti anni fa per Carlo Delle Piane, non saprei cambiare una parola. L’ho piuttosto ridotta per farne una versione jazz. dal momento che il protagonista è un pianista jazz colto in una fase di deriva della sua vita, e che perciò si ripresenta davanti a una donna con cui, dieci anni prima, ha avuto un flirt di qualche mese. Lei se lo ritrova sul pianerottolo di casa, e nell’arco di un’intera estate la donna (che è la Maria del titolo) sarà costretta a subire una vera persecuzione amorosa. Oggi parleremmo di stalking. Nulla dico del finale per preservare la struttura anche un po’ da thriller della vicenda. In questa mia proposta (è la prima volta che dirigo la commedia e che interpreto il ruolo dell’uomo, che si chiama Sandro) è stato prediletto, come dicevo, l’aspetto notturno e jazz, da cui l’utilizzo in scena di un sassofonista che assume la statura di un vero e proprio personaggio. A lavorare con me: Nelly Jensen (Maria), Marcello Micci (il Narratore) e Pierfrancesco Cacace (Sax). Le scene sono di Antonella Rebecchini."

C’è una grande attenzione nei confronti della musica e del jazz, alla descrizione musicale del racconto. Che valore ha per lei la musica e il rapporto tra la musica e il testo?
002manfridi“In questo caso la musica è quasi un perno narrativo. Tutto il clima è jazz. Ed è anche la dimensione da cui provengono i sogni e i demoni del protagonista, convinto di aver sbagliato strumento. Sandro, infatti, continua a ripetere che avrebbe dovuto suonare il sax e non il piano, perché ogni vero jazzista, dice, suona il sax. E, da questa ragione di trama, ne deriva una naturale proposta musicale di brani in molti casi conosciuti, e in altri, improvvisati, quasi come in una jam session estemporanea tra sassofono e voce”.

Andrà poi in scena, a febbraio, al Teatro di Roma con “L’Indecenza e la forma”. Un omaggio a Pierpaolo Pasolini, n’opera nella quale a parlare saranno il poeta bambino e il poeta adulto, un dramma che attraverso i gironi pasoliniani affronta il presente e il futuro. Sarà quindi uno spettacolo per riflettere sull’attualità più che sulla memoria?
“Il testo ha una struttura poetica dal ritmo densissimo. È un viaggio vorticoso nelle zone più infernali della vita di Pasolini, e senza pudore entra anche nelle carni di quello che è stato il dato centrale della sua biografia: il rapporto con la madre. Nell’insieme è un testo polifonico, a molte voci, ma tutte affidate allo straordinario talento di Francesca Benedetti, per cui è stato a scritto. A dirigerlo sarà Marco Carniti”.

Svolge il duplice ruolo di drammaturgo e di attore: preferisce dar vita ad un personaggio attraverso la parola scritta o recitata?
“Recitare è stato il mio primo sogno, quello da cui son derivati gli altri. Lo faccio con gioia e anche stancandomi poco, ma scrivere è ormai diventata la base della mia vita, e di certo mi è irrinunciabile. Non voglio però limitare queste nuove avventure che mi viene consentito di vivere. Le mie prossime, da attore, saranno con Antonello Avallone, al Teatro Dell’Angelo, per fare ‘Delitto perfetto’, poi, al piccolo Eliseo, con Kaspar Capparoni e con la regia di Chiara Noschese, farò: “Cosmesi dell’assassino”, da un romanzo di Amelie Nothomb”.

Maresa Palmacci 06/11/2016

Le metamorfosi del corpo di Yasmine Hugonnet

Il corpo come strumento da tendere, ascoltare, accogliere in silenzio, vive immobile in una scena candida. La performance della coreografa tedesca Yasmine Hugonnet, andata in scena al Teatro India il 3 novembre, è una rappresentazione che indaga minuziosamente il corpo, con un’attenzione particolare alle sue posture, reali e mentali. La lentezza dei movimenti della danzatrice crea un’atmosfera rarefatta, che induce lo spettatore a sospendere il pensiero e catalizzarlo sul corpo immobile che parla, si nasconde e all’improvviso si mostra in tutta la propria nuda verità. “Le Récital des Postures” è una riflessione sul concetto di postura, inteso come posizione del corpo nello spazio, ma anche come una postura mentale, che stabilisce un accordo con ciò che esiste nel mondo circostante; la postura come forma e luogo dell’immaginazione e come un percorso di trasformazione durante il quale il corpo diviene un oggetto rituale, un’opera d’arte, uno LeRecitaldesPostures02strumento sonoro che dal ventriloquio giunge all’espressione della parola.
Una danza che attraversa il tempo e ne manifesta il senso profondo, la sua essenza, attraverso il moto perpetuo di un corpo che si trasforma in uno strumento capace di incidere nella mente un ricordo. Raccolta in se stessa la Hugonnet esplora con movimenti essenziali spazi sconosciuti. Si presenta al pubblico stesa su una superficie bianca, come avvolta in un involucro dal quale lentamente si libera, iniziando pian piano a prendere vita, consapevolezza del proprio corpo. Il volto coperto dai capelli fatica a mostrarsi, mentre le braccia e le gambe disegnano linee perfette nell’aria e il corpo appare sospeso in quella parte di terra bianca dove l’immaginazione resiste ancora. L’assolo della Hugonnet è pregno di un mistero primordiale, di un’atmosfera antica che stabilisce semplici connessioni, ed è capace di condurci nelle pieghe più intime e nei più nascosti recessi del corpo. Un momento poetico, simbolico e rituale. Non c’è musica e il silenzio è l’unica presenza oltre al corpo della danzatrice che resiste accanto a lei. La sequenza di figure stilizzate riconduce il pensiero in un altrove immaginario, concedendo allo LeRecitaldesPostures03spettatore la possibilità di interpretare con libertà ciò che osserva. Dopo un primo momento in cui la Hugonnet appare timida, quasi impaurita dal mondo esterno e da se stessa, segue una seconda fase di ribellione, in cui esce dallo spazio bianco e va in proscenio, si disegna dei baffi con i capelli e si mostra al pubblico per la prima volta frontalmente. Segue poi una danza rituale, una specie di lotta primitiva, in cui appare coraggiosa, forte e consapevole, come per la prima volta, della potenza del proprio corpo. Si ferma poi di fronte agli spettatori, si siede a terra e li incanta con il suo ventriloquio. Immobile e imperscrutabile emette suoni viscerali, profondi e gravi, che si trasformano lentamente in parole: “We are dancing together”.
“Le Récital des Postures” è la rappresentazione di un’affascinante e coinvolgente oscillazione di coscienza e abbandono, immobilità e movimento, ma soprattutto la dimostrazione che il corpo può diventare uno strumento espressivo. Le sue potenzialità trascendono la realtà, perché attraverso l’esplorazione dei movimenti, dei gesti fugaci o delle linee dipinte dagli arti con lentezza e razionalità, il corpo diviene un fluido che naviga nello spazio senza meta, ma con consapevolezza. Yasmine Hugonnet è in grado di condurci, anche se per un breve tempo, in un luogo puro e incontaminato, dove è ancora concesso abbandonarsi all’immaginazione ed essere completamente liberi.

Serena Antinucci 05/11/2016

Le Récital des Postures teaser: https://vimeo.com/160340390 

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