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Il sogno di Siegfried ne “Il Lago dei cigni” di Wheeldon al Teatro dell’Opera di Roma

Per chi ha avuto una formazione accademica, ma anche per chi dentro una scuola di danza non è mai entrato, la ballerina in tutù bianco sulle punte rappresenta l’icona per eccellenza del balletto classico. È a questa immagine che, fuori da ogni dubbio, si lega l’dea del cigno, anche senza conoscerne la vicenda, un po’ come quando alle nacchere e ai ventagli si associa il “Don Chischiotte”, o “Schiaccianoci” all’albero di Natale. Al di là delle sperimentazioni, dei nuovi linguaggi verso cui è tesa tutta la nuova ricerca coreografica, esistono delle esperienze che non possono essere messe da parte, accantonate. “Lago dei cigni”, forse anche più degli altri, continua a essere ripreso nelle sue infinite versioni, riadattato, reinterpretato da chi non vuole, né può, esimersi in quanto ballerina da aver indossato, almeno per una volta nella vita, i panni della candida Odette.
Il Teatro dell’Opera di Roma porta in scena i quattro atti di questo celebre balletto a chiusura di un’intensa stagione. L’allestimento però, presentato in prima nazionale, è quello che Christopher Wheeldon ha realizzato nel 2004 per il lagocigni2Pennsylvania Ballet; il coreografo inglese, infatti, misurandosi con un’opera iconica di tale portata, ha dato vita a una versione che non si allontanasse troppo da quella originale, differentemente da quanto personalità come Matz Ek o Matthew Bourne, prima di lui, avevano fatto. Da una parte la volontà di non stravolgere troppo l’opera, rendendo omaggio ai maestri che hanno creato un capolavoro senza tempo, dall’altra il bisogno di lasciare un segno di sé con qualcosa di originale, senza esagerare.
In questa nuova esplorazione del balletto, si lavora sul «modello» che va ad arricchirsi di parti nuove, inedite, di ambientazioni diverse, finali inaspettati. Resta il componimento, restano i cigni in tutù ma cambia l’atmosfera della Germania medievale immaginata da Pëtr Il’ič Čajkovskij. Ispirato dai dipinti di Degas, Wheeldon costruisce la sua versione ambientandola negli studi dell’Opéra di Parigi a fine Ottocento dove l’immaginata compagnia sta provando “Lago dei cigni”. Protagonisti di questa vicenda - molto più incantata che fiabesca- le fanciulle in tutù e i gentiluomini mecenati, protettori e loro amanti. Come un autentico dipinto del pittore francese, infatti, sembra di cogliere un attimo qualsiasi della lezione di balletto per cui le danzatrici non sono colte nell’atto della prova vera e propria, quanto nel loro parlottio all’arrivo in sala, nel legarsi la scarpetta da punta, piuttosto che nel misurarsi con qualche passo davanti allo specchio. In questa versione proposta- seppur «senza troppi adattamenti rispetto a quella costruita per 2004» come dichiara lo stesso coreografo- al corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, i personaggi originali rientrano nel sogno del primo ballerino ossessionato dalle attenzioni che il ricco aristocratico riserva all’interprete principale. La sala prove che si svuota diventa l’ambientazione di un sogno, quello del ragazzo che entra letteralmente dentro la storia del principe scapolo, cacciatori di cigni. L’interpretazione del personaggio lascia posto all’identificazione con esso; il semplice fare Siegrfried diviene un essere effettivamente il Siegrfried che si invaghisce della ragazza imprigionata nella maledizione di Von Rothbart.
lagocigni3L’aspetto più interessante di questa versione di Wheeldon è che se anche cambia il contesto, lascia inalterate le parti originali di Petipa e Ivanov. Nel sogno del lago restano gli ingressi delle danzatrici, gli schemi rigorosi su file che esigono passi perfettamente identici, la variazione di Odette, quella di Odile, il celebre pas de quatre nella danse des petits cygnes; tutta la parte dei cigni, insomma, è quella fedele all’opera. Il numero non troppo nutrito del corpo di ballo è perfettamente in sintonia con la versione scelta per essere interpretata. Il “Lago” di Petipa prima e di Ivanov poi, richiedono un corpus d‘interpreti particolarmente copioso ma non quello di Wheeldon. Qui la scelta, accurata, di portare sul palcoscenico del Costanzi una rivisitazione già nata per coinvolgere 16 cigni, perfetta per Roma che ne ha messi in scena 18. Anche in questa esperienza, come per quella americana del 2004, lo spazio scenico è stato ridotto per avere una scena comunque piena nonostante il numero -volutamente- limitato di cigni.
Si respira, dappertutto, l’atmosfera del sogno; dal teatro che avvolge come in un abbraccio lo spettatore fino al palcoscenico, dove si aspetta l’epilogo di una favola che porterà gli interpreti a vivere, per sempre, felici e contenti seguendo un filo perfetto che ha inizio da quel “C’era una volta...”. Ma Wheeldon cambia il finale, sembra volerci dire che i sogni restano tali e che la realtà è ben diversa da quello che potremmo immaginarci. Ciò che rimane, al risveglio di un sogno, sono le disillusioni? La sorpresa più grande di questo spettacolo è proprio questa: è che sembra parlarci di un “tutto meraviglioso” che vive nelle favole, ma poi ci riporta, improvvisamente, alla vita vera lontana da incantesimi, magie e sortilegi per cui niente si conquista senza dura fatica.

Laura Sciortino 04/10/2016

Incontro con la critica: Gabriele Rizza, il decano del teatro

A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto”. (Stanislaw Jerzy Lec)

Chimenti interpella Rizza. Ogni città, ogni mestiere, ogni professione ha il suo decano. Per anagrafe, per continuità, esperienza. Una figura che c'era, una memoria storica, una figura che c'è, alla quale puoi chiedere consiglio e illuminazione, una figura che ci sarà, salda nel suo scrigno, certezza dei foyer. Gabriele Rizza ha un passato da performer, da chansonnier (cantante è riduttivo), da direttore artistico (nel 2010 curò la programmazione del festival di Radicondoli traghettandolo dopo la scomparsa di Nico Garrone), un presente dove si destreggia tra teatro, cinema e Berlino.
Se lo guardi di profilo è l'iconografia perfetta della celebre illustrazione freudiana (“What's on a man mind”) con una donna nuda distesa con la schiena all'indietro sciolta nella stempiatura. Di teatro ne ha visto, ne ha masticato, morso, addentato, Rizza2mangiato, vergato in fiumi di parole. Rizza è il decano per autorevolezza imprescindibile della Firenze votata alla cultura, le conferenze stampa non hanno senso senza il suo approdo. Anche a lui le nostre tre domande-riflessioni dalle cui risposte poter capire meglio le strade, i percorsi, gli aneddoti di un mestiere bellissimo quanto vilipeso, maltrattato e, spesso, tradito. E siccome Rizza è e resta un artista anarchico ha accorpato i tre punti interrogativi in un bel fluire, tutto da leggere e godersi, immaginandosi le scene, le parole, quell'archeologia teatrale dalla quale non possiamo prescindere.
Cominciamo proprio da Gabriele Rizza, per anzianità, nel sottoporgli le nostre tre brevi, e aperte, domande (le stesse sono state fatte ad altri critici teatrali), più che altro un modo per conoscere e scoprire (non marzullianamente) il passato e il presente delle penne che, ancora curiose nonostante tanti anni e infinite ore scomodi con il culo sulle poltrone in platea, occhiaie e appunti carpiti nel buio assoluto, rendono, comunicano il teatro nostrano, senza spiegarlo ma cercando di illuminare i chiaroscuri, di far luce tra le pieghe dei discorsi che stanno alla base del teatro, dentro le sue viscere, distillando la polvere di stelle, la fatica del palco, smembrando parole, cercando rimandi e fili conduttori. Certamente, non un lavoro semplice.
Ecco i nostri quesiti dialettici: I tuoi cinque spettacoli del cuore. I tre personaggi teatrali (registi, attori, operatori) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro. I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.

“Per chi ha la mia età, come dire, per quel poco che vale, per chi ha fatto il '68 (l’anagrafe però non mente: gli anni erano allora 20, tondi tondi) un palinsesto teatrale che ne giustifichi la formazione “critica” e la spinta “professionale”, gode di precise coordinate spazio temporali. L’architrave, o se volete la curva di riferimento, prende forma e contenuti a metà dei ’70. Si fortifica e ramifica negli anni a venire (irrobustiti, personalmente, da copiose frequentazioni transalpine), scollina e declina, nella sua esplosiva, farneticante elaborazione, sulla metà degli ’80. Si arena? Si sfalda? Si esaurisce? Si sgretola? No di certo. Ma inesorabilmente (inevitabilmente) chi ebbe la ventura di attraversarlo, e di assistervi, da quel decennio ricavò “impressioni” che si sarebbero rivelate in qualche modo uniche e irripetibili. Diciamo incomparabili epperò continuamente raffrontabili. Insomma, su quello che poi avremmo visto da “critici”, pesava un originario vizio di forma, un peccatuccio originale che, la verginità perduta, avrebbe fatto da paraocchi, generando una presunzione appunto da “critico” navigato. Non scevra di ombre e ingiustificati pregiudizi.
rizza3Ora, non per sfilarsi, ma scindere, isolare in/da questo mosaico alcune tessere, singoli episodi, nomi, titoli esemplari e protagonisti capitali, è davvero impossibile. Che la memoria si affastella mentre improvvisi flash si affacciano in proscenio: Leo e Perla che fanno Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (e giù a trincare), Carmelo che recita Dante affacciato alla Torre degli Asinelli di Bologna, Tino Carraro che veste Lear, il Puntila di Tino Buazzelli, il Malato immaginario di Romolo Valli, la Winnie di Gabriella Bartolomei. Più che singoli spettacoli allora, ma la memoria al volo ne aggancia di classici (l’Amleto di Bergman e l’Amleto di Ljubimov, il Principe di Homburg di Peter Stein, i Personaggi di Vasiliev) e d’avanguardia, soprattutto d’oltreoceano (Living, Squat, Mabou Mines, Richard Foreman, La Mama) valgono alcuni autori, del cui viaggio, dato l’abbrivio in quegli anni di festa, abbiamo avuto la fortuna di essere in parte testimoni. In casa Giorgio Strehler (L’opera da tre soldi, La tempesta), Luca Ronconi (in principio fu Utopia più di Orlando, poi il Laboratorio pratese e sublime l’arrivo in via Merulana), Massimo Castri dai tempi di Ibsen (Rosmersholm), Carlo Cecchi dai tempi di Pinter (Il compleanno), Romeo Castellucci alias Raffaello Sanzio dai tempi di Santa Sofia.
In trasferta Peter Brook alle Bouffes du Nord (La tempesta in primis), Ariane Mnouchkine alla Cartoucherie (Tartufo su tutti), Pina Bausch in giro per l’Europa, Bob Wilson “incontrato” alla Biennale ’77 (Einstein on the Beach), Tadeusz Kantor “scoperto” sui banchi della Classe morta, Bartabas rivelatosi a cavallo sotto lo chapiteau del suo Zingaro. Infine, se ci è consentita una digressione coreografica, non possiamo dimenticare la favolosa, impareggiabile fluidità compositiva di Juri Kylian”.

Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire, non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno”. (Bertolt Brecht)

Tommaso Chimenti 04/10/2016

Nelle due foto (partendo dall'alto): Gabriele Rizza con Federico Tiezzi e Francesco Colella; Gabriele Rizza con la sua band Per certi versi

Tradizionalista non conservatore: al Vittoriano, la mostra dedicata a Edward Hopper

Forse non sono troppo umano ma il mio scopo è stato quello semplicemente di dipingere la luce del sole sulla parete di una casa”.
Così “dipinse” il proprio ingegno Edward Hopper, il realista metafisico, l’amante della luce, che dipingendo ciò che non riusciva a rendere a parole, lo illuminava perché potesse restituire l’immagine più nitida dei luoghi che fermava sulla tela.
Dal 1 ottobre 2016 al 12 febbraio 2017, nell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano, torna a grande richiesta a Roma l’icona dell’arte americana del XX secolo. Circa 60 opere realizzate da Hopper tra il 1902 e il 1960, concesse temporaneamente dal Whitney Museum of American Art di New York, tra cui figurano “Le Bistrot or The Wine Shop”, “Summer Interior”, “New York Interior”, “South Caroline Morning”, “Second Story Sunlight”.Hopper02
Eccezionalmente, è uscita dalle sale del Whitney anche una delle opere più iconiche della collezione Hopper – anomalìa non fosse altro che per le dimensioni, circa 2 metri di lunghezza – “Soir Blue”, realizzata a Parigi nel 1914. L’opera, a inizio secolo, scosse gli animi della critica che non ne riconobbe il pregio: restò successivamente, per volontà dello stesso artista, arrotolata a prendere polvere in qualche soffitta prima che, negli anni Sessanta, venisse riscoperta e restituita al pubblico.
La mostra, curata da Luca Beatrice, e che ha visto l’intervento di Carrie Springer, curatrice del Whitney Museum di New York, è suddivisa in sei sezioni: ritratti e paesaggi, disegni preparatori, incisioni e olii, acquerelli e immagini femminili. L’esposizione è arricchita, inoltre, da una serie di contributi multimediali e da aree laboratoriali dedicate all’interattività e all’approfondimento.
Un percorso in cui è possibile, sala dopo sala, misurare quella che è stata definita la “cifra hopperiana”: un marchio artistico che è andato potenziandosi nella società occidentale per l’eredità che è stato in grado di lasciare nei campi più diversi, dalla pubblicità, alla letteratura, alla fotografia, al cinema.
Una riflessione che scaturisce anche dall’attributo stesso, “hopperiano”: è raro che il nome di un artista – visivo, per giunta – si trasformi in un aggettivo e che così lucidamente esprima l’identità di uno stile e di un linguaggio. I grattacieli, le pompe di benzina, la provincia americana, gli edifici e la loro umanità, la solitudine degli interni, i ponti e i negozi della middle class Hopper03americana. È l’America dell’età del jazz, dei noir, delle donne che iniziano a scoprire le gambe.
Hopper è stato un pittore enormemente “saccheggiato”. Bene dire che lo è stato – in quanto figurativo puro – nelle immagini che è stato in grado di catturare: dagli edifici, agli interni, alle scale. L’ottica hopperiana è stata manna pura per il cinema. Hopper è la casa di Norman Bates e il cortile su cui si affaccia la finestra di James Stewart nei capolavori di Hitchcock, è Lynch in “Mulholland Drive”, è l’incomunicabilità del “Deserto rosso” di Antonioni, e “Study for Girlie Show” è un fotogramma – voluto dallo stesso Dario Argento – di “Profondo rosso”.
Sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, con il patrocinio della Regione Lazio, in collaborazione con l’Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale, questa grande retrospettiva dedicata all’artista americano è stata organizzata e prodotta da Arthemisia Group, in collaborazione con il succitato Whitney Museum of American Art di New York.

Federica Nastasia 02/10/2016

Credits:
Foto 1:
Soir Bleu (Sera blu) 1914
Olio su tela, 91,8x182,7 cm
New York, Whitney Museum of American Art
Lascito di Josephine N. Hopper © Heirs of Josephine N. Hopper,
licensed by Whitney Museum, N.Y

Foto 2:
Second Story Sunlight (Secondo piano al sole) 1960
Olio su tela, 102,1x127,3 cm
New York , Whitney Museum of American Art;
acquisizione con i fondi dei Friends of the Whitney Museum of American Art ©
Whitney Museum of American Art, N.Y.

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