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Dietro le quinte di "Dopo la prova": Manuela Kusterman e Ugo Pagliai raccontano il loro amore per Ingmar Bergman

Il 14 luglio 2018, Ingmar Bergman avrebbe compiuto cent'anni. Manuela Kustermann e Ugo Pagliai rendono omaggio al regista svedese con lo spettacolo "Dopo la prova", in scena al Teatro Vascello di Roma dal 31 gennaio 2019 al 10 febbraio 2019, presentato in anteprima al Festival dei Due Mondi di Spoleto. L’opera, sospesa tra sogno e realtà, si offre come spunto per indagare le paure, le ansie e i desideri dei suoi protagonisti, attraverso i quali prova a tessere la trama di una vita intera.
Abbiamo incontrato Manuela Kustermann, interprete e direttrice del teatro, insieme a Ugo Pagliai, con cui divide la scena, per parlare dell’attualità di quest’opera e del suo richiamo alla bellezza.

Dopo la prova

Da dove nasce l’idea di portare nel suo teatro questo testo?
Kustermann: “Avevo sulla scrivania diversi lavori, tra cui quello di Daniele Salvo, il regista. A me il suo progetto piaceva molto e così ho deciso di proporlo a Spoleto, dove è stato accolto favorevolmente. Si pensa sempre che dietro alla scelta dei testi ci sia una complicata gestazione, ma spesso le cose sono molto più semplici e su tutto prevale l’amore per l’opera”.

Ha seguito una preparazione particolare per entrare nella parte?
K.: “Vengo da una formazione sul campo e da un teatro in cui lo spettacolo si costruisce lavorando direttamente sul palcoscenico, provando la parte. Con Daniele, invece, abbiamo approcciato diversamente il testo: ci siamo innanzitutto impegnati nello studiare a tavolino le parole, per poi concentrarci sulla fisicità. Il mio personaggio, inoltre, è molto complesso, perché passa dalla gioia alla disperazione, dal riso al pianto in maniera molto repentina. È una sfida, ma proprio per questo è interessante”.

La nostra società sta vivendo una grave crisi di coscienza: il teatro come può aiutarci ad affrontarla?
K.: “Il teatro aiuta, indiscutibilmente. Dopo la prova può essere paragonato ad un classico, cioè ad un testo in grado di parlare al pubblico contemporaneo. Sicuramente non possiamo trovare negli spettacoli tutte le risposte, ma possono aiutarci a formulare delle domande con cui tornare a casa arricchiti. Perché ciò sia possibile, bisogna essere spettatori sensibili, altrimenti le parole del testo ci rimbalzano addosso. Tutto questo discorso si lega all’importanza di educare alla bellezza e all’ascolto. Ho voluto dedicare questa stagione proprio alla bellezza, perché tutto intorno a noi c’è un gran degrado, ma è proprio per questo che bisogna rieducare le persone ad apprezzarne il valore”.

Quando è venuto a conoscenza del progetto, quali sono state le sue prime reazioni?
Pagliai: “È un testo che mi ha subito incuriosito, perché riassume molto bene la genialità e la vitalità di Bergman. Inoltre, l’elemento del sogno mi ha conquistato subito: significa libertà totale e la possibilità di volare con la propria immaginazione. Henrik ripercorre la propria esistenza attraverso la dimensione onirica e in questo percorso alcuni passaggi mi hanno particolarmente colpito, come l’incontro con il personaggio interpretato da Manuela, che a sua volta ha alle spalle una storia molto complessa e travagliata”.

Per entrare nella parte, ha eseguito un training particolare?
P.: “Sì certo, abbiamo lavorato molto a tavolino. Mi sono venuti in mente anche parecchi registi con cui ho lavorato e che però non ho voluto imitare, come Strehler, Squarzina, Ronconi e Castri. Quando c’erano scogli del genere, perdevano la testa. Ho basato la mia preparazione anche sulla violenza con cui Henrik impartisce le indicazioni ai membri della compagnia e sul rapporto che ha con gli attori: lui ama profondamente gli attori”.
Si è basato anche sulle sue esperienze personali?
P.: “Una volta Costa, che è stato un grande maestro, fece una lezione di regia in cui parlava del sogno. Allora io gli dissi che desideravo andare a dormire la sera per poter sognare. Mi rispose che bisogna imparare dalle rappresentazioni e dalle sensazioni che abitano i sogni. Devo ammettere che le sue parole mi sono molto servite, sia nel mio cammino di crescita umana che per la costruzione delle mie interpretazioni. La forza del sogno risiede davvero nella sua libertà, nella possibilità di tirare fuori tutto ciò che si ha dentro, anche fatti o desideri che nella realtà non avrebbero un nesso tra loro”.

Il teatro come luogo della possibilità dunque.
P.: “È per questo che bisogna fare teatro. Il teatro esiste da quando esiste l’uomo, non si può mettere da parte. Certe sensazioni, certi sentimenti vanno tirati fuori, vanno comunicati, perché è questa la vita. È questa la forza che viene dallo spettacolo e da un testo come questo”.

Parlando di sogni, lei ha sempre desiderato fare l’attore?
P: “Da bambino, ai tempi della guerra, approfittavo dell’assenza dei miei genitori per indossare delle cose che trovavo in una cesta ed interpretare i personaggi dell’epoca. Praticamente, ho sempre voluto fare teatro”.

In una precedente intervista, ha affermato che il personaggio di Henrik fa un bilancio della propria esistenza. Rispetto alla sua carriera, c’è un personaggio a cui è particolarmente affezionato?
P.: “Ogni volta che interpreto un personaggio, in quel momento è sempre il più importante. Non penso agli altri, che mi hanno ferito o accarezzato. Adesso, amo questo personaggio bergmaniano perché è al tempo stesso geniale e umano, pieno di difetti da indagare. L’avvicinarsi della morte frena l’uomo e molti dei suoi desideri rimangono sospesi. Tutto questo è affascinante”.

Guardando al futuro, invece, c’è qualche progetto in cantiere?
P.: “Sì, mi stanno proponendo delle idee, alcune anche abbastanza curiose, come Romeo e Giulietta, ma per me ha senso solo se vi è una determinata scrittura. È l’amore nella sua massima espressione. Mi piacerebbe farlo per esprimere l’importanza delle relazioni. Oggi l’amore viene sciupato e affrontato con uno sguardo eccessivo, ma è toccando certe corde dell’animo che si raggiunge il sublime”.

Valeria De Bacco 08-02-2019

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