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Claudio Boccaccini ci parla di "Love's Kamikaze" e di un teatro che continua a porre domande

Dal 2005, quando debuttò all’Eliseo, fino ad oggi, di nuovo in scena al Teatro Marconi fino al 17 febbraio, lo spettacolo Love’s Kamikaze, scritto dal grande e compianto drammaturgo Mario Moretti, continua ad essere tragicamente attuale. Brucia ancora, infatti, il conflitto tra israeliani e palestinesi, lo stesso che incombe sulla storia d’amore dei due protagonisti. Abbiamo parlato di questo lavoro con il regista Claudio Boccaccini, classe 1953, una lunga carriera spesso dedicata ad opere che non hanno paura di confrontarsi con temi politici e sociali.

Love's Kamikaze era stato portato per la prima volta in scena ben quattordici anni fa. Come nacque all’epoca il tuo incontro con questo testo e, quindi, il progetto stesso dello spettacolo?

"Il testo è stato scritto da Mario Moretti, autore che io frequentavo molto, sia privatamente che professionalmente. Dopo l’11 settembre gli venne in mente di analizzare dal punto di vista drammaturgico la questione Israele-Palestina, e in particolare fu colpito dalla notizia del suicidio di due ragazzi, lui palestinese e lei ebrea, nella zona di Tel Aviv. Da questa notizia letta sul giornale cominciò a scrivere il testo. Io nella mia carriera ho sempre cercato, laddove possibile, di trattare temi che avessero un respiro sociale, civile, politico: insieme a Mario Moretti facemmo anche un Giordano Bruno, io per conto mio ho fatto lavori su Pasolini, porto in scena da molti anni anche uno spettacolo autobiografico, La Foto del Carabiniere, su Salvo D’Acquisto e il suo rapporto con mio padre, che fu una delle persone salvate dal suo eroismo. Trovai quindi straordinario il testo di Love’s Kamikaze, perché univa la storia di una grande passione d’amore a quella di un conflitto “eterno” tra due culture. Lo abbiamo rifatto già tre anni fa, questa è la terza edizione".

A proposito di Mario Moretti: che significato ha per te la sua opera, non solo rispetto alla tua personale esperienza artistica ma anche rispetto al teatro e alla cultura in generale?

"Mario è stato un promotore di cultura, in particolare di teatro ma non solo: era anche un bravissimo pittore, un traduttore, insomma un intellettuale come adesso sono sempre più rari da trovare. A Roma ha aperto spazi teatrali importanti: il Teatro Intrastevere e il Teatro dell’Orologio, che è stato una fucina di artisti, siamo tutti passati da lì. Come drammaturgo era specializzato nella trasposizione dalla letteratura al teatro: insieme abbiamo lavorato a molte opere teatrali tratte da testi letterari, come America, da Kafka, le Opinioni di un Clown, che feci con Pannofino, il Principe K., tratto da Dostoevskij. E poi scrisse anche molti testi originali, come questo Love’s Kamikaze. Era un artista, un “provocatore di cultura”, una persona mai sufficientemente rimpianta".

In questo spettacolo si affronta di petto la ferita ancora aperta del conflitto israeliano-palestinese. Che idea ti sei fatto di questa tragica e ancora irrisolta vicenda?

"Non è facile rispondere perché si tratta di una situazione molto complessa. Confesso che fin dalla gioventù ho sempre sposato maggiormente le ragioni dei palestinesi, mi sembrava giusto stare dalla parte di coloro che vedevo come gli oppressi. Però, negli anni, anche grazie a questo spettacolo che mi ha portato a immergermi nella questione e dunque ad approfondirla, mi sono reso conto che non si può semplicemente dare ragione agli uni e torto agli altri. C’è un problema atavico, tra gli ebrei che ritengono quella la loro terra e hanno trovato il modo di riappropriarsene, e coloro che nel frattempo l’avevano occupata. Un contrasto che perciò ha radici antiche ma che viene rinfocolato da interessi e conflitti di portata mondiale. Una situazione molto difficile da districare, insomma, con tanti paradossi: Tel Aviv ad esempio è una città che sembra Manhattan, però è anche un territorio di scontro, dove ogni tanto qualcuno si fa esplodere e subito dopo gli altri compiono rappresaglie sanguinose. È un conflitto che divide il mondo, e che dal mondo dovrebbe essere risolto".

E rispetto a quattoridici anni fa la tua impressione è che le cose siano rimaste invariate, o che siano addirittura peggiorate?

"Sono rimaste invariate e forse persino peggiorate, penso al clima creato di recente dall’Isis o dalle decisioni dell’amministrazione Trump. Quando portammo in scena lo spettacolo quattordici anni fa ritenevamo che fosse estremamente attuale. Quando lo abbiamo rifatto tre anni fa ci siamo trovati a pensare la stessa cosa, e così ancora adesso. Questo già di per sé dice tutto".

Ma il teatro, e in generale l’arte, può incidere in modo significativo sui drammi della realtà? E, se sì, in che modo?

"Mi piacerebbe molto risponderti di sì, in realtà penso di no. O per meglio dire, non credo che il teatro e l’arte in genere servano di per sé a risolvere le cose, ma servono a porre domande. Io credo appunto che questo spettacolo provochi degli interrogativi nello spettatore, ed è questa la cosa importante. Il teatro non deve dare risposte, deve porre domande, e questo spettacolo lo fa".

Questo spettacolo è certamente una grande prova anche per i due attori protagonisti, Marco Rossetti e Giulia Fiume…

"Sì, è una prova importantissima per loro, una prova molto difficile che loro superano brillantemente, infatti stanno avendo molto successo tra il pubblico che li viene a vedere. Un successo meritato, perché riescono a passare da situazioni più leggere e divertenti, a momenti di forte tensione erotica a momenti di disperazione profonda, abissale: hanno perciò la possibilità di mostrare tante sfumature diverse e sono davvero molto bravi nel farlo".

Emanuele Bucci 14-2-2019

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