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“Voce”: la maratona poetica del Teatro di Roma ai tempi dell’emergenza

In questo tempo che chiude in casa e svuota le città, il Teatro di Roma decide di aprire il sipario sui canali social di Facebook (Teatro Argentina, Teatro India, Teatro Torlonia) e Instagram (@teatrodiroma) con una giornata dedicata alla poesia, nel primo giorno di primavera (per chi se li fosse persi, i video delle letture poetiche rimangono disponibili online).

Se nelle nostre stanze di vita quotidiana, così come nelle platee e sul palcoscenico, dobbiamo rinunciare alla vicinanza e al calore dei corpi, il teatro trova il modo di resistere nella «voce», in quella «radice comune» dalla quale scena e verso fioriscono. In un tale tempo di bonaccia, sono quindici poeti contemporanei a soffiare nelle vele stanche della nostra mente. Giorgio Barberio Corsetti, Mariangela Gualtieri, Azzurra D’Agostino, Paolo Maccari, Maria Grazia Calandrone, Tommaso Giartosio, Laura Pugno, Franco Marcoaldi, Orso Tosco, Ida Travi, Marco Mantello, Silvia Bre, Lidia Riviello, Vincenzo Ostuni, Antonella Anedda: è questo l’equipaggio di cui avevamo bisogno. La maratona “Voce” comincia, la lancetta avanza di 30 minuti in 30 minuti, e a ogni rintocco sgorga sulla pagina Facebook del Teatro un nuovo rivolo di poesia. L’orologio poetico risuona nelle bacheche degli ascoltatori, porta «le parole alate» nelle case di chi vive questo tempo fermo, congelato da un’emergenza che ha colto tutti alla sprovvista. Ma la parola poetica non si fa intimidire e fluisce libera anche quando ogni altro movimento è impedito.

Ad aprire le danze è Giorgio Barberio Corsetti, che ci invita a immaginare il Teatro Valle completamente vuoto, con qualche sedia soltanto lungo i margini della platea e un tappeto di cuscini su cui «potere allungarsi e ascoltare le parole dei poeti». Corsetti riporta al centro l’atto stesso della scrittura, praticata per «depositare» l’«anima al sicuro dentro quei fili appoggiati sul foglio» e «per dare conto del canto disperato» che sente dentro di sé. Lo scrivere come àncora di salvataggio, ma anche come pozione magica per trasformarsi in qualcos’altro, umano o animale che sia: dal corvo che segue un movimento di natura piombando «sugli occhi spenti di una carogna», al predatore che divora un pesce a cui la morte fa male, e che lo dice a chiare lettere, perché senzienti e sofferenti sono tutti gli esseri della Terra. La soggettività può dunque cambiare pelle, ma anche ridursi a pochissima cosa e lasciarsi cadere: è a questo movimento verso il basso che ci invita la poesia, a muoverci cioè verso il fondale che giace primordiale sotto di noi, facendo di questo tempo un’occasione preziosa per esplorare cavità, interstizi e angoli trascurati a causa del tran tran quotidiano. «È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore», diceva Jep Gambardella ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Ed è vero: oggi come mai riscopriamo che il silenzio non è semplicemente assenza di rumore, ma terra fertile da auscultare, da cui attendere il dischiudersi di una parola nuova - forse più genuina.

Il silenzio di questi giorni «per strade addormentate e piazze con nessuno» rischia di farci sentire «soli al mondo», ma ci ricorda, forse, anche un dovere nei confronti di questa terra «travestita da città»: quello di «una riconoscente spinta dentro i passi che la pestano piano». Nelle parole di Mariangela Gualtieri la paura cede il passo a una nuova consapevolezza, che in fondo è soltanto il ricordo della connessione profonda che unisce la vita degli uomini a quella degli animali e delle piante. Aver dimenticato, troppo a lungo, di essere noi stessi “pezzi di natura”, ha portato a ignorare e oltraggiare ecosistemi, a spezzare gli equilibri, fino a perdere il nostro stesso centro. «Quand’è», chiede Franco Marcoaldi, «che l’idea di limite e confine si è perduta, è stata per sempre abbandonata?». «Nulla è al suo posto» nell’Antropocene, la nuova era geologica di cui l’uomo si è erto a sovrano. Solo il gatto pare «coltivare ancora il proprio baricentro», e di nuovo la prospettiva animale rivela qualcosa di saggio, di desto, di fronte a un’umanità sempre più intorpidita, cullata dal sogno di un benessere eterno, luminoso, farneticante. «Volevamo il comando, volevamo fare i padroni», dice con voce sottile Ida Travi: ma che ne è dei nostri scettri, ora che un virus invisibile ci ricorda la fragilità della nostra natura? Nella Grecia antica gli uomini erano spesso chiamati οἱ θνητοί, “i mortali”. Non era però solo un tetro monito; i mortali sono anche gli unici esseri ad avere coscienza della propria finitezza, e a possedere un parziale antidoto all’oblio: la parola. Sì, perché la poesia è capace di ridare sostanza a ciò che è lontano, a ciò che sarebbe altrimenti perduto per sempre: è insomma voce di un’assenza, come quella articolata da Maria Grazia Calandrone nel suo Interiore invernale, dedicato alla nonna Gaetana: «Mentre il mondo cambiava […] tu come gli animali stavi senza domande. Senza dolore. Semplicemente esistere. Esistere e basta. Essere casa come sono casa i corpi, gli abbandoni, le guarigioni».

Nelle case e nelle camere da letto in cui siamo rinchiusi in questi giorni, i «figli non sanno dormire» e i padri si spaventano «al dovere di tramandare radici, di correggere gli errori e il male». È il «tremendo dei pensieri sguinzagliati» che tormenta i genitori e quelle generazioni che hanno l’obbligo di offrire risposte, di rintracciare le responsabilità che hanno condotto all’agonia il mondo consegnato ai loro figli. Nonostante i dubbi che lo attanagliano, destinati forse a rimanere sospesi, Paolo Maccari, seduto sul bordo del letto per il racconto della buonanotte, afferma con commozione: «mormoro appena, gli basta che io sia lì per ritrovare il sonno, come a me è bastato che lui fosse al mondo per supplicare me stesso di durare più a lungo». L’inquietudine accompagna anche Tommaso Giartosio, in una «notte di padri che appaiono ai figli e nei figli, e figli ai padri e nei padri», ma sembra stemperarsi in nostalgia, quando il ricordo si sofferma sulle «lingue» a cui si riducevano le saponette colorate, resti preziosi e «pezzi di vita consumati fino in fondo». Un «tempo perduto» di oggetti e abitudini domestiche lontane sembra riaffiorare in Giartosio, come in tutti noi, nel gesto quotidiano – ed oggi così frequente – del lavarsi le mani con «il sapone liquido». Nelle goccioline che colano sul dispenser si sedimenta il rimorso per lo «spreco sprecato», per un modo di produzione e una forma di vita orientata al consumo che si deposita e si rintraccia nelle azioni più piccole.

Ma forse è ancora possibile «scollare la pelle del passato, prendendo senza ira il proprio nulla tra le dita», se in questa notte si cela non soltanto l’angoscia, ma anche l’attesa e la possibilità di una luce: è il sorgere di un’alba «che ci fa coraggio», come recita Antonella Anedda in italo-sardo, e che ci invita a «perlustrare» e a rinnovare noi stessi per primi.
Alba è leggerezza di vita, semplicità di sentimento, è tutto ciò a cui possiamo oggi aggrapparci, togliendo il superfluo e rimettendoci all’essenziale, come fa Marco Mantello nella sua dichiarazione d’amore non convenzionale, dove l’altro si ama non per la grandezza della sua eccezionalità, ma per la bellezza dell’ordinario condiviso: «[…] ti amo come Star Wars, come Tetsuo [...] ti amo perché nel tuo rimpianto ho visto il mio e nei miei torti le tue ragioni. Amo tutto di te. Anche i maglioni». Rimaniamo allora con le parole di Laura Pugno, che ci parla di fuoco e di calore come di una promessa: torneremo a posare la testa «su quella spalla, nell’incavo di quel braccio, contro quel torace»; i nostri sensi si sfameranno ancora della primavera in atto; la vita sospesa riprenderà il suo eterno fluire: «Ritornerai? Sei ritornata?» cesserà «di essere domanda».

Chiara Molinari

Maria Giulia Petrini

22/03/2020

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