Da sempre consideriamo la musica come suddivisibile in generi, in categorie, in macrostrutture asettiche dove incasellare autori, stili, suoni differenti. Nonostante si sia tentato negli ultimi anni di superare questa convenzione comunicativa, si è molto spesso obbligati ad utilizzarla per riuscire a veicolare con il prossimo l’immaginario sonoro evocativo di un brano. Il post rock è forse il tentativo più ambizioso mai fatto per abbandonare la logica classificatoria e ‘vivisezionatrice’della musica. L’esperienza sonora diventa pura arte espressiva, le dinamiche, le pause e i refrain sono come fluidificati in un sistema astratto, sono come parte di un circolo emozionale che porta l’ascoltatore in un paesaggio in costruzione, incompiuto e per questo da esplorare.
Testimonianza di tutto questo è "Live a Musicolepsia", il primo live album dei Goodbye, Kings, gruppo emergente del panorama post rock italiano. L’album consta di 5 brani e si pone come summa di tutti i lavori precedenti "Au Cabaret Vert" (2014) , "Vento" (2016) e il recente EP uscito nel 2017. "Targa Florio, 1906" è una lunga esperienza sonora, ben 17 minuti; due sono i fili conduttori che legano il pezzo, nella prima parte una raffinata melodia di piano, nella seconda, dopo una cesura violenta, un riff di chitarra ripetuto fino alla conclusione. Il brano è un dialogo a più voci, un’altalena sonora in cui si tenta di fondere dinamiche incalzanti, quasi jazzistiche a una ballata lenta e profonda. L’epilogo del pezzo è però tutt’altro, come una miscela esplosiva, dai due stili citati si arriva a una conclusione inaspettata, quasi epic metal. La seconda traccia "If Winter Comes" è intessuta di una lunghissima attesa che non riesce mai ad esser soddisfatta. Nella parte finale si attua il tentativo, che non riesce completamente, di rispondere all’attesa che perdura per tutto il pezzo. Vi è sempre infatti, un qualcosa di non espresso, di non detto, forse di non esprimibile; "If Winter Comes" è un pezzo che suggerisce senza mai arrivare alla compiuta espressione. La peculiare eleganza del pezzo rilega lo spettatore sonoro in un’atmosfera epica in cui è l’attesa stessa ad acquistare un senso compiuto. Il gioco di atmosfere epiche cadenzate dal rumore del vento prosegue in "The Bird Whose Wings Made the Wind", la terza traccia dell’album. Tutta la prima parte ci questo pezzo è una rincorsa corale di batteria, piano, basso e chitarra a una melodia incisiva quanto onirica di sax. D’un tratto, come se si fosse visto abbastanza di quel paesaggio, dopo una pausa centrale vi è una riscrittura globale del quadro iniziale. Tutti gli strumenti entrano in profonda sinergia, innestandosi l’uno sull’altro come a prendere reciprocamente fiducia nella nuova direzione intrapresa. Il finale è la sublimazione dei momenti precedenti, la batteria esce dal tempo e la dinamica esplode come a sottolineare la ritrovata, assoluta e completa libertà.
Rischiara e riporta tutto al giusto ordine "Fujin Vs Raijin", la penultima traccia. Un simposio sonoro volto a rievocare suoni classicheggianti; il pezzo è un unico grandissimo refrain dove la coralità sottostante si mette a lato per esaltare la potenza espressiva del riff centrale. "A Crack of Light Will Destroy This Commedy" è l’ibrida conclusione dell’album. E’ forse il brano più complesso e più elaborato di tutto il disco. Non vi sono stacchi o cesure nette come in quasi tutti gli altri pezzi; la band è riuscita ha scolpire e limare i 13 minuti del brano ammorbidendo e fondendo con una finezza notevole i vari paesaggi sonori. Se la partenza è quasi una ballad, una ninnananna fanciullesca, l’incupirsi del pezzo rievoca suoni violenti e incisivi tipici dell’industrial metal, mentre la conclusione del pezzo, e dell’album, è pura ritmica. Come una corsa a perdifiato il pezzo e l’album si chiudono in solo di sordi timpani e ancestrali tamburi.
Matteo Petri 11/07/2018