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“Una pura formalità”, la ricerca del ricordo perduto

Uno sparo, la colpa di amare, la vita redenta dalla creatività. Nel commissariato dell’anima, dove la fragilità cerca se stessa, il sangue non rende giustizia alla verità: è una macchia, può essere nascosta. Solo riaprire la ferita del tempo, richiamare il corpo alla cartilagine smembrata, può mettere d’accordo Storia e memoria, un confronto, un contatto tra ciò che si è perduto e ciò che si è conquistato. “Una pura formalità”, che Glauco Mauri ha tratto dall’omonimo film del ’94 di Giuseppe Tornatore, e interpreta insieme a Roberto Sturno, è allora un viaggio all’inizio della notte in cui la vita ha smesso di essere l’opera più importante.  

Piove. Incessantemente. Piove come se non ci fosse un domani. Un uomo, Roberto Sturno, corre in bocca alla pioggia battente, inseguito da un manipolo di agenti che si fa largo tra lo sforzo e la determinazione. Lo raggiungono, lo catturano e lo traducono in commissariato: due scrivanie, quattro sedie, un calorifero, è un imbuto di pietra con pareti a scomparsa. Si apre da una feritoia come quelle dei castelli medievali, ma qui è il mondo esterno che spia l’interno, il fuori che diventa dentro, e non viceversa. L’orologio al muro è senza lancette. Il tempo non c’è, non esiste, è già stato vissuto altrove. Le penne non hanno inchiostro. Le parole da dire sono già state scritte, niente può essere aggiunto o corretto. L’uomo ha solo il suo nome. Come chi è passato prima di lui, i muri sono firmati con nomi, cognomi, vite. Dice di chiamarsi Onoff, il celebre scrittore. La notte della sua memoria non è rischiarata da altra luce. Salvezza e dannazione. Non ha documenti. Correva nel bosco, ma non ricorda perché né dove andasse. Nessuno dei poliziotti lo riconosce. Un fantasma in carne e bugie. Per comprendere chi è diventato, dove si trova e perché, deve tornare in possesso del suo nome, della sua identità, agli occhi degli altri, oltre che dei propri.

Il commissario, interpretato da Glauco Mauri, profondo conoscitore ed estimatore dell’opera dello scrittore, lo mette alla prova. La persona seduta di fronte è davvero chi dice di essere. Onoff e i suoi libri rappresentano una parte importante della vita del commissario, mentre lui non riesce a rimettere insieme i pezzi della sua. I ricordi si muovono come i lampi del temporale, procedono per accenti e schianti, schiarite e ridiscese nell’ombra. L’interrogatorio del commissario è uno scontro continuo, passo di montagna, valanga trattenuta. La sua stima per lo scrittore, infatti, non gli impedisce di fare il suo mestiere: le domande. È stato ritrovato un cadavere vicino alla sua abitazione, il volto sfigurato, non se ne riconoscono i connotati, come del paesaggio, trasfigurato dalla pioggia. Onoff si contraddice, non sa dire dove è stato né cosa ha fatto, il buio della sua mente è un pozzo senza fondo. Il commissario ricalibra la bussola delle circostanze, orari, giorni, incontri, lo riporta alla cronologia e ai suoi libri, gli rinfaccia l’incoerenza dell’uomo verso lo scrittore.

Glauco Mauri è un commissario geometrico e paterno, tra Freud e Socrate: le risposte Onoff deve tirarle fuori da sé. Roberto Sturno è un Onoff in balia di un tempo indeciso, gira e rigira sulla sedia, attratto da due fuochi, le domande del commissario e la verità che crede di sapere. L’insonnia è l’anima creativa di Onoff. Adesso dorme o è sveglio? Le contraddizioni possono stare nei romanzi, ma la realtà non le accetta, tantomeno la ragione. “Una pura formalità”, quindi, è anche un’esplorazione del mistero della creatività. Carpirne il segreto per replicarlo. In questo commissariato che mostra ciò che solitamente è nascosto, parlare di un’opera non è scriverla, è capire chi l’ha scritta. E vedere da vicino il proprio mito – qual è Onoff per il commissario – lo fa cadere dal piedistallo, lo rende indecentemente umano. Ma più vero, forse.

Al cinema, diretto da Giuseppe Tornatore, questo rebus esistenziale di occhi, cuore e spasimi era interpretato da Gérard Depardieu (Onoff) e Roman Polanski (il commissario). La drammaturgia di Mauri ricalca quasi alla perfezione sceneggiatura e intenzioni del film, “quasi” perché il teatro può permettersi un altro tempo, una maggiore distensione di argomenti, una più profonda chiarezza di conclusioni. Una tridimensionalità, insomma, schiacciata in pellicola sulla dimensione della suspense e del contrasto di personalità.

Da oltre trenta anni insieme sulle scene, Glauco Mauri e Roberto Sturno con “Una pura formalità” aggiungono perciò un nuovo e inedito adattamento alla storia di una compagnia che ha messo in scena i grandi classici (Sofocle, Shakespeare, Molière), ma anche Ionesco, Beckett, Pirandello e il Dostoevskji di “Delitto e Castigo” che tanto ricorda, nel rapporto teso e concitato tra Raskolnikov e il giudice istruttore Porfirij, lo scontro risolutivo tra Onoff e il commissario. Il racconto rimane oscuro finché Onoff non fa sua la direzione del colpo di pistola. È la ferita di cui “Una pura formalità” è partenza e arrivo, un cerchio che salda la fine con l’inizio. La luce apre gli occhi, le pareti del commissariato scorrono all’indietro, i faldoni dei casi precedenti asciugano la pioggia. Tutto ora è bianco e glaciale.

Onoff comincia il viaggio dell’eterno ritorno della vita. Acceso-spento, On-off. Non c’è creatività adesso. Solo transizione. Un punto lontano nello spazio con cui è impossibile farla finita.  

 

(Matteo Brighenti) Twitter @briguzia

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