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"True detective 3" nel segno della memoria e del tempo: un’analisi sui primi episodi della nuova stagione

“Chi non ricorda, non sa di non ricordare”: è la risposta istigatrice rivolta al detective Steve Hays (il premio oscar Mahershala Ali) e alla sua convinzione sulla nitidezza mnemonica del caso Purcell. Marcel Proust ha scritto che le informazioni della memoria volontaria, fornite sul passato non ne trattiene nulla di reale. La memoria involontaria, a differenza dell’intelligenza, restituisce il passato con una vivezza, con una intensità che sembrano sopraffare e illuminare l’istante presente. La terza stagione di True Detective è una recherche che si dirama in una tridimensionalità temporale, aprendo un’infinita e illogica universalità. Il tempo per Nick Pizzolatto è stato sempre una prerogativa tematica: se nella prima stagione Rust Cohle descrive nichilisticamente l’impossibilità dell’uomo subalterno di captare il tempo ciclico nietzschiano, se nella seconda a un nunc lineare si contrappone provocatoriamente un hic caotico, leibniziano, in questa stagione le vicende passate, presenti e future di Hays sono messe in dubbio dalla memoria. Una memoria deflagrata e frammentata che tenta di ricordare da due focus temporali differenti, il 1990 e il 2015, i misfatti cruenti e terribili avvenuti nel 1980 nella profonda e retrograda provincia dell’Akransas, in cui sono rimasti coinvolti i fratellini William e Julie Purcell. Insieme al collega Rolan West (Sthephen Droff), il primo investigatore afroamericano di un noir – ennesima attenzione alla componente sociale della serie – indaga e setaccia la zona per ricavarne tracce rivelatrici. Da abile ricognitore nel Vietnam crede nella sua calibrata ricerca: troverà solo la morte del bambino. La storia si ripete ma mai allo stesso modo. Le stesse tracce, impronte del tempo, dieci anni dopo riapriranno il caso e interpelleranno l’ormai ex detective per la ricerca di Julie, ritenuta ancora viva. Segugio in cerca di una pista, Purple Hays – così veniva chiamato dai suoi commilitoni del Vietnam – dissolve le sue tracce e quelle del caso, obnubilando i traumi della sua esistenza, nel 2015.

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Malato di Alzheimer, assistito da un figlio con cui ha una relazione conflittuale, vedovo, denigrato dalla figlia, l’anziano detective riaffronta il passato attraverso un’intervista di una troupe televisiva. Nonostante il deficit mnemonico Hays persevera sulla ricostruzione del passato alla disperata ricerca del congiungimento tra il tassello risolutivo del caso e la chiave della sua esistenza. Segno tangibile dell’importanza della memoria, della volontà attiva dell’oblio. Il prezzo da pagare è altissimo. I fantasmi del passato lo assalgono e lo stringono in una morsa soffocante. In pieno delirium memorandi, oltre l’incursione notturna e in pigiama alla casa dei Purcell, i suoi sensi di colpa si incarnano nella defunta moglie Amelia (interpretata dall’affascinante Carmen Ejogo) ammonendogli di aver distrutto una famiglia, esortandolo a cercare ciò che ha perso nel bosco. Tutto sembra segnato, tutto sembra aleatorio. Il caso dell’Akranas si intreccia con la sua esistenza. Dalla disgregazione di un nucleo familiare (generata dall’abiezione e la dissolutezza dei genitori dei bambini) si fonda il suo fallimentare matrimonio e genera una serie di intensi dualismi, topos della serie, che compensano il tenue rapporto con il detective West: la scomparsa di Julie e l’assenza della figlia Rebecca, il trauma storico-sociale del Vietnam e quello cronachistico-esistenziale del crimine, la Grande Guerra e la memoria moderna, l’occhio investigatore di Hays e la penna indagatrice di Amelia, che scrive un libro sul caso; ma soprattutto il detto e il non detto: il detto del tempo e il non detto della storia, il detto di un individuo e il non detto di Dio, come il detective interpreta borgesianamente la poesia di Warren letta dalla moglie. La verità storica non è ciò che avvenne, ma ciò che giudicammo che avvenne. Per questo è impronunciabile, come l’esistenza di Dio. Un noir grottesco all’insegna del ritorno: dalla metropoli all’America rurale e periferica, dagli intrighi del potere alla violazione dostoevskiana sull’innocenza dei bambini. Da spettatori non ci resta che attendere il finale per sapere se ci perderemo nell’oscurità di una nuova Carcosa per ritrovare un’illuminante linearità o, inquieti, andremo a ritroso per rivedere i capitoli sospetti e scoprire un’altra soluzione, la vera.

Piero Baiamonte 03/02/2019

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