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"Trainspotting" di Mabellini: i treni persi degli antieroi e la loro eroina

ROMA – “Essere, o non essere, questo è il problema: se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d'atroce fortuna o prender armi contro un mare d'affanni e, opponendosi, por loro fine? Morire, dormire… nient'altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare”. (W. Shakespeare, “Amleto”)

Scordatevi il libro, scordatevi soprattutto il film. Tutto sta nel titolo, dà lì nasce, sfocia, sfiorisce quella crepa che, dolorosa, fatica a stemperarsi, non riesce a risarcirsi, stenta a rimarginarsi, a placare quel00train.jpg male di vivere, quel dolore assordante, quei crampi che mangiano il futuro: “Trainspotting”, praticamente lo stare sulla banchina a vedere i treni, degli altri, le vacanze, degli altri, i lavori, degli altri, gli appuntamenti e le vite, degli altri, andarsene lontano, sfrecciarti addosso, spostandoti il ciuffo, togliendoti la polvere da sopra la maglia sudata. Attendere, aspettare un'altra folata di vita che scompigli per un attimo capelli che non hanno conosciuto balsamo, giubbotti di pelle lisi ai gomiti. Quel vento forte che ti scardina, quel rivolo subito dopo l'oblio di quella linea gialla di demarcazione, quel “Mind the gap”, tra chi sta dentro e chi sta fuori, chi ha accettato le regole, le convenzioni, il sistema, e chi lo ha rifiutato, cancellando il suo essere parte integrante di questa società, rimanerne dentro ma contestando, protestando in primis con se stessi.

01train.jpegLa versione teatrale italiana ideata da Sandro Mabellini (qui non faremo alcun riferimento o paragone con il cult movie generazionale anni '90; il regista toscano ha anche ben scelto nel non immettere il monologo incipit abusato della pellicola) non subisce il contraccolpo della traslitterazione dalla celluloide al palco ma anzi riesce a dare nuova linfa, grazie ad una regia raffinata e scarna insieme, concreta e lucida che molto si basa su puntamenti e direzionamenti luci, e ad interpreti corroboranti e vigorosi, ad un discorso qui mai trattato con banalità né superficialità. Qui non è la droga la protagonista, non è lo sballo, ma lo sfascio, lo sfacelo, la distruzione del sé. Antieroi e la loro eroina.

Su un fondale nero nomi in bianco sparsi come vittime, caduti di una guerra civile silenziosa, martiri sull'altare del progresso e delle frustrazioni che il capitalismo produce, consuma e crepa. Una tenda da campeggio, il rifugio precario, il riparo momentaneo e traballante, forse la casa o l'amore, dal quale sono stati sfrattati. Quasi una lavagna (ha un che di “Nemico di classe”) sulla quale segnare i nomi dei cattivi, da mettere in castigo e punire, e poi sgabelli che sembrano cessi (o una panchina da football, loro perennemente emarginati dal gioco e dall'azione), water dove gettare litri di liquidi umani (la vita che se ne va) che siano feci, piscia o sperma. E' un vomito il linguaggio, è un vomito la loro vita, è un buttar fuori con forza e violenza contro un nemico che non esiste: il nemico rimane lì a guardarti dall'altra parte dello specchio.02train.jpg

Lontano da alcuna morale o insegnamento, messaggio o retta via da seguire, la versione materica di Mabellini (Viola Produzioni e Accademia degli Artefatti) ha spirito combattivo e linfa gagliarda e ci spinge con forza (l'efficace traduzione è di Emanuele Aldrovandi piena, inevitabilmente, di tutti quei “fuck” divenuti “cazzo” ad infarcire, rafforzare e imbrattare uno slang slabbrato e sfatto) dentro questo mondo fatto di sofferenze, senza buonismi, di patimenti, senza piagnistei. Sono brutti, sporchi e cattivi, apparentemente nichilisti, menefreghisti, disillusi, anti qualsiasi regola; non sono neanche fuorilegge, sono proprio contro ogni legge, ogni dettame da seguire. E' il malessere che li guida nella loro strada senza sfondo, è la disfatta che cercano e inseguono che li muove, che li sbrana. L'implosione come stile di vita. Tutto il resto è punk.

I quattro (trasformisti, ognuno interpreta più ruoli) in scena hanno tic e bocche spalancate, occhi spiritati, scatti nervosi incontrollabili, menti psicolabili: Michele Di Giacomo tiene le fila della ciurma con piglio ora narrando come voce fuori campo adesso prendendo in mano la scena con carisma, Marco Bellocchio fulmina ed è pungente, muscolare, adrenalinico, Riccardo Festa riesce a virare nei vari registri con puntualità, Valentina Cardinali non si fa schiacciare da questa massa testosteronica e anzi tratteggia la sua figura con una dolcezza disarmante che ancora più contrasta con la ferocia tragica e disgraziata, sprizza angoscia e tenerezza insieme.

03train.jpgNon possono non venirti in mente, tornando alla nostra realtà, al nostro piccolo mondo antico tricolore, le storie nelle ballate di Vasco Rossi, la “Lilly” di Venditti, “Scimmia” di Finardi o “Chicco e Spillo” di Bersani. L'uso e la distribuzione delle luci sono la vera nota illuminante, in ogni senso, il vero fil rouge di fondo, collante e amalgama, vero elemento folgorante registico in scena, dosato da ognuno dei quattro pronti interpreti. Luci, abbaglianti e intermittenti come le loro vite, che diventano microfoni ad accecare volti nei chiaroscuri demoniaci di facce deformate dalle ombre, cellulari che diventano fasci di luce a pennellare caravaggescamente le loro facce straziate, i loro zigomi michelangioleschi abbrutiti, quella tenerezza deturpata, quell'ingenuità contaminata che fa spazio alla tragedia del trip. Che il trip è il viaggio, paradossale per loro che non vanno da nessuna parte, anzi s'affossano. Non c'è passione, non c'è desiderio nei loro occhi svuotati, aridi, acidi e persi. Hanno ghigni e denti digrignati, sono crudi senza dolcezza, senza salvezza, feriti, lacerati, rabbiosi come cani alla catena, frustrati, repressi. “Trainspotting”, l'epitaffio di una generazione.

“Voglio una vita maleducata di quelle vite fatte così, voglio una vita che se ne frega che se ne frega di tutto, sì” (Vasco Rossi, “Vita spericolata”)

Visto al teatro Brancaccino di Roma, l'8 aprile 2018

Tommaso Chimenti 09/04/2018

Foto: Manuela Porchia

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