«Il coraggio ce l’ho, è la paura che mi frega» dice Totò nei panni di Figaro, in Figaro qua Figaro là (1950) di Carlo Ludovico Bragaglia. Lo stesso coraggio e forse la stessa paura l’ha avuta Antonio Grosso nel decidere di mettere in scena Il Piccolo Principe…in arte Totò, ma lui per fortuna non si è fatto “fregare”.
Lo spettacolo, in scena dal 19 al 24 marzo al Cometa Off di Roma e presentato da La Bilancia e 3atro, è un omaggio ad Antonio De Curtis, il Principe della risata, per tutti Totò, e specialmente agli anni e alle vicissitudini antecedenti al successo.
In uno scenario onirico, quasi favolesco, si muovono due attori, palleggiandosi dialoghi con ritmi serratissimi, in uno stretto dialetto napoletano, che sorprendentemente non incrina la comprensione dei contenuti, perché la performance più che da capire è proprio da sentire. Antonio Grosso, scrittore e regista della pièce, veste i panni di Totò, mentre Antonello Pascale interpreta, con una versatilità stupefacente, più di venti personaggi, coloro che il protagonista incontra in mezzo secolo di vita.
La scena, opera di Marco Maria Della Vecchia, è spoglia: al centro sullo sfondo, due altalene sorrette da lunghe corde bianche scendono ondeggianti dal soffitto; ai loro lati due sedie in legno giacciono vuote e sembrano in qualche maniera sole, manchevoli; a destra un manichino indossa una giacca, un gilet e ha un cappello vicino ai piedi; mentre al suo opposto, a sinistra, una stampella sorregge una giacca a pied de puole e per terra riposa una bombetta nera. Alzando lo sguardo, si notano appese cinque sei giacche, alcune logore, alcune benfatte, forse a indicare le tante maschere del personaggio o a rendere l’idea dei costumi del tempo.
Sin dai primi trenta secondi di spettacolo, è evidente l’importanza centrale delle luci, che, abilmente giostrate da Gabriele Aziz, connotano le varie scene trasportando lo spettatore dal sogno alla veglia, dal mondo caotico delle città alla confusa interiorità del protagonista. Quasi tutti i suoni, dalle melodie allo sciabordio delle onde, sono prodotti dalle mani di Pascale che accarezzano e percuotono un tamburello. Tutto è sulla scena e niente da essa esula, fa eccezione solo un breve flusso di coscienza che rimbomba da una voce fuori campo, atto forse a coinvolgere lo spettatore nell’astrazione riflessiva in cui versa il personaggio in quel momento.
La prestazione attoriale di entrambi gli interpreti lascia senza parole, nel caso di Grosso anche senza fiato. Questo infatti, per tutti i novanta minuti di spettacolo, regge un ritmo di movimenti e di parlata che avrebbe messo a dura prova anche i polmoni di Micheal Phelps. Per lo spettatore stesso risulta estenuante stare dietro in maniera partecipativa ad un circo di urla, balletti, imitazioni, canzonette, smorfie e pianti, ma allo stesso tempo è impossibile distogliersene. La partecipazione sentita dell’attore, forse ancor più palpabile date le piccole dimensioni dello spazio teatrale, tiene attaccati alla scena, quasi che ci si senta in dovere di supportarlo in questa esplosione performativa.
Dall’altro lato, Antonello Pascale mette sul piatto una capacità mimica straordinaria e un’ordinatissima rapidità nel passaggio da un personaggio all’altro. È la madre, il padre e il cugino di Totò; gli amichetti del rione Sanità dov’è cresciuto; nonché il maestro di scuola e di pugilato, che fra l’altro fu la causa della sua frattura al naso; è la folla inferocita e poi innamorata dell’attore; è il dottore che lo informa del problema di crescita alla mascella, causa di quel volto così particolare; è Gustavo De Marco, idolo e ispiratore delle sue prime performance; è i compagni di camerata nel 1915 e il rigido caporale sua nemesi; è i suoi datori di lavoro e Peppe Iovinelli; è un caleidoscopio di caratteristiche, dialetti e pose. In una stessa scena riesce a impersonare due o tre figure e addirittura un dialogo tra personalità diversissime e dai dialetti differenti, rendendo assolutamente lineare lo scambio, quasi fossero effettivamente due individui indipendenti.
La pièce ha ormai collezionato più di ottanta repliche, la prima nel novembre 2021 al Teatro Brancati di Catania, dove già il duo si era fatto apprezzare con due precedenti spettacoli Minchia signor tenente e Venerdì 17 ovvero due preti di troppo. L’affiatamento tra i due attori è palpabile e le comuni origini partenopee infiammano le lore performance, facendo emergere un rispetto quasi reverenziale per quel che stanno mettendo in scena.
La genesi dello spettacolo risale a quando Antonio Grosso era «ragazzino» come afferma egli stesso, aggiungendo che, solo dopo dieci anni, quando conobbe «Elena De Curtis, nipote del grande comico, l’idea si trasformò in soggetto cinematografico, poi racconto e infine in questa piéce teatrale».
Rispetto ai timori che hanno accompagnato il viaggio dei due attori all’interno dell’intimità del comico, Antonello Pascale racconta in un’intervista di aver sentito il peso della responsabilità di trattare di un personaggio sacro e della tradizione napoletana, per la quale Totò è «tipo il Papa» come afferma scherzosamente Grosso. Si sono avvicinati in punta di piedi alla storia di Antonio De Curtis, dell’uomo dietro le maschere, del bambino prima del Principe, cercando di tratteggiarne l’umanità e le fragilità, la persona più che il personaggio, che molto spesso nell’immaginario collettivo sfugge e si perde.
Per le nuove generazioni, sostiene Grosso, «Totò è come dire Che Guevara, è un personaggio storico», si ha presente l’immagine ma non molto di più. Anche chi lo conosce meglio della sua storia sa ben poco, forse ha visto alcuni film o spettacoli teatrali e sa che è di sangue nobile, non a caso “Il Principe”, e questo anche grazie alla celebre frase «Signore si nasce, e io lo nacqui, modestamente» dal film Signori si nasce (1960). Quel che emerge da questa messa in scena sono il percorso formativo e le caratteristiche dell’uomo Antonio. Il carattere testardo e controtendenza evidente sin da piccolo, la sua avversione alle regole e al sistema, la sua bontà d’animo e la sua scaltrezza, l’inesistente attaccamento al denaro nonostante l’estrema povertà in cui è nato e un rispetto fedele e coerente per sé stesso, per il suo cuore, per il suo sentire.
Filo conduttore dello sviluppo del personaggio, anzi della persona, dal piccolo Totò nel ventre della Sanità al grande Principe della risata, è l’avversione al tradimento. Sin dai primi sentori della propria rarità, Totò si responsabilizza, cerca una strada diversa da quella impostagli, percepisce la propria vocazione artistica e non vuole trascurarla, ma già dai primi tentativi si trova a fare i conti con un mondo che non ride insieme a lui. Il primo tradimento viene proprio dalla sua amata Napoli, madre, compagna, sorella e in questo caso nemica. Il conflitto tra una realtà non ancora pronta alla sua arte e un giovane comico ancora forse troppo acerbo. Questa coltellata, che ha la forma di un lancio di ortaggi durante la sua prima esibizione, lascerà un solco che l’attore si porterà dietro sempre e da un lato sarà un monito a esplorare e cercare altrove e dall’altro un paralizzante terrore di fallire.
Se Figaro aveva coraggio, ma era la paura a fregarlo, Totò al contrario ha paura, ma è il coraggio a salvarlo. Ragazzo testardo e uomo tenace, procede coi morsi della fame e con dubbi sul percorso, ma non si ferma, forse animato da un sentimento di rivalsa e da un desiderio di riconquista del suo grande amore perduto e traditore. Tornerà a Napoli ad affrontare la sua sfida da attore famoso, ma ancora temendo una gran delusione, che com’è oggi evidente, non arriverà. La sua città lo abbraccerà e incoronerà, per non abbandonarlo mai più.
Nell’emozionante monologo finale dello spettacolo, una dichiarazione d’amore struggente e sincera di Totò verso il suo amato caotico groviglio di vicoli, musica e colore, diventa una danza, un sigillo, un sodalizio impenetrabile, una promessa di reciproca cura e lealtà, che si chiude con le parole «io sarò il Principe, ma tu sei sempre stata e sempre sarai la mia Regina». E sipario.
25/03/2024, Costanza Alessandri