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Primavera dei Teatri: Father and son, Dammi un attimo, Mario Perrotta, Oscenica, Baglioni/Bellani

CASTROVILLARI – Altri spettacoli ci hanno coinvolto, accerchiato, spostato. E noi li abbiamo annusati, digeriti, abbracciati. Perché a Primavera dei Teatri tutto è subbuglio, un felice calderone organizzato, uno sturm und drang razionale, un pensiero che si fa azione, un gesto che ritorna ad essere parola e scambio, genuino e generoso, soprattutto generatore e generante. Scena Verticale in questi anni ha fatto conoscere la cittadina calabrese sotto al Monte Pollino in tutta Italia, divenendo faro e punto di riferimento teatrale, circoletto rosso in una immaginaria cartina italica. Qui si vedono Maestri assodati come nuove compagnie che tra qualche anno potranno dire la loro. Ed è in questa logica tra affermati e novità che sta la forza di scouting da una parte e di sottolineatura dei fenomeni dall'altra, due solchi che sembrano non toccarsi mai ma che qui hanno motivo non solo d'essere ma anche di coesistenza, di vicinanza, di fratellanza, di passaggio di testimone. Nei quattro spettacoli che analizzeremo qui sotto è lampante il confronto figli-genitori che già abbiamo sottolineato come forte fil rouge di tutto il festival, cifra e scelta da parte della direzione artistica.

Ecco allora che ci colpito piacevolmente “Dammi un attimo” (testo e regia di Francesco Aiello e Mariasilvia Greco; prod. Teatro Rossosimona) che parte come una sit-com ma che, attraverso buoni dialoghi e un'ottima attorialità, ci porta dentro i dubbi e le perplessità esistenziali che stiamo attraversando: fare figli o restare figli? Dammi un attimo perché ci dobbiamo pensare e riflettere, perché siamo impauriti della vita che intorno a noi cambia così velocemente, perché c'è stata la pandemia e c'è l'inflazione e la guerra è alle porte e il precariato macina vittime se non addirittura la disoccupazione, perché siamo infelici e insoddisfatti perennemente alla ricerca di novità e viaggi che ci portino via da noi stessi. Tre personaggi (brave e pronte la stessa Greco e Elvira Scorza) che seDammi un attimo.jpg ne stanno, come scarafaggi, come mummie nei sarcofagi, sul fondo in scatolette illuminate, gabbie sì ma lucenti e colorate, le nostre case-loculo nelle quale non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, siamo auto(no)mi se il frigo è pieno, Netflix è acceso, possiamo chiuderci dentro mentre il mondo fuori che rumoreggi pure. Una ragazza e un ragazzo sulla trenta-quarantina sposati e la sorella di lui che si piazza sempre a casa loro perché non vuole stare con marito e figlio a casa propria. Da una parte si cercano fermezze e certezze e punti stabili, dall'altra si è in continua fuga dalle responsabilità, da se stessi, dalle regole. E mentre parlano di figli preparano un pane (vero) in un forno che alla fine tireranno fuori caldo e fumante addentandolo (cannibalizzando il possibile figlio?). Ci ha ricordato, per atmosfere e colori, i quadri di Carrozzeria Orfeo (è un grande complimento). Oggi, nel nostro primo mondo, giustamente la donna non vuole più sentirsi contenitore di vite ma ha i suoi spazi, il lavoro o la carriera, l'indipendenza da difendere. E' un mondo difficile, che corre troppo forte per le nostre retine che non sanno fotografarlo, per i nostri piedi stanchi che gli corrono dietro affannati. Non c'è posa né calma mentre un figlio ti costringe a fermarti e pensare, a riflettere su chi sei, su quello che sei diventato, su quali valori hai da consegnare al nuovo arrivato. E questo fa tremendamente paura. In una nuova ondata di disimpegno da una parte, programmi trash e telefonini e la ricerca del divertimento come esperienza ad ogni costo, e dall'altra di nuove paure, alle succitate aggiungiamoci anche ecologia e ambientalismo oltre al nucleare, ecco che la frittata è pronta per sfornare l'immobilismo, il vivere nel presente senza programmare troppo. E i figli sono un balzo nel futuro, quel qualcosa che che è trampolino tra noi e il domani. E forse non ce lo possiamo permettere né economicamente né emotivamente. Non siamo più pronti. Forse non lo erano neanche le nostre madri ma si sentivano “costrette” culturalmente da un ruolo cucitogli addosso dagli uomini che gli erano intorno. Una profonda analisi, una centrata riflessione, una bella considerazione, un solido ragionamento.

Cominciamo da un'osservazione: da qualche anno gli spettacoli di Mario Perrotta sono diametralmente cambiati, quasi irriconoscibili rispetto alle tematiche forti e sociali grazie alle quali lo abbiamo apprezzato, applaudito, premiato. Certo si cambia, si cresce, ci si evolve, tutto giusto, tutto legittimo, tutto plausibile. Ricordiamo però “Italiani Cincali” e “La Turnata” oppure “Un Bes” o ancora il meraviglioso “Bassa Continua” con i tre percorsi sul Po. Perrotta innamorato delle trilogie, che incuriosiscono e affascinano, fidelizzano il pubblico. E anche stavolta, dal 2018 ad oggi, si è lanciato nella trilogia della famiglia con “In nome del Padre”, “Della madre” e quest'ultimo “Dei figli” (prod. TSBolzano, la Piccionaia, FTS, Permar). Un altro impianto, un'altra forma, trasformato, sicuramente diverso. Per i nostalgici un'altra cosa, lontanissima dalle precedenti esperienze sul palco. Ma il mondo va avanti e non c'è spazio né tempo per chi vuole rimanere ancorato a vecchie idee e concetti sorpassati. Le persone, e gli artisti ancora di più, sono in continua trasformazione e mutamento, guardano avanti. Però possiamo dire, e forse proprio perché siamo nella schiera malinconica dei reazionari che non vorrebbero che niente cambiasse, che la forza e l'impatto di Mario Perrotta in scena, in queste ultime uscite, si è leggermente annacquata, ha perso di quella potenza che ci rovistava l'anima. Chiamala maturità, se vuoi, assennatezza o saggezza. Anche questo “Dei Figli” risulta assolutamente godibile, scorrevole, a tratti divertente, colorato, con buone prove attoriali da parte degli altri tre protagonisti ma il vigore, la vitalità, l'energia che invadeva la platea nelle prove di qualche anno fa era di tutt'altra intensità. Si usciva dal teatro con gli occhi lucidi, il cuore pieno, rinfrancati e scorticati. Adesso siamo più nell'ambito, che nessuno si offenda, del teatro borghese con i suoi quadri, le canzoncine (Loretta Goggi, “I sogni son desideri” o “Musica leggerissima”, arie nazional popolari rassicuranti). In una scenografia che ci ha ricordato gli habitat di Rezza/Mastrella sono posizionate delle strane strutture futuristiche, sedie ondulate. Tre ragazzi abitano in affitto nella stessa casa di Gaetano, Perrotta stesso, che sta tutto il giorno in vestaglia per poi mettersi giacca e camicia e fare brevi conversazioni in video con donne che lo pagano per essere maltrattate eroticamente, dipingendosi come un etero duro e puro mentre nella realtà è omosessuale. I tre giovani sono un'avvocatessa, uno sceneggiatore fallito e un ragazzo che sogna di occupare il Polo Nord. Le loro (s)fortune sono i genitori: o del tutto assenti, o troppo accondiscendenti o ancora assidui controllori asfissianti. Invece che “Dei figli” l'analisi verte più su “Degli Uomini”, infatti sono i maschi che hanno un problema di hikikomorità rimanendo chiusi nelle loro stanze per anni per paura del mondo là fuori, che è diventato pericoloso, indecifrabile, rischioso, incomprensibile. Oltre ai personaggi sul palco, altri cinque si affollano su schermi recitando la parte di congiunti e genitori sopra le righe e grotteschi (emergono Marta Pizzigallo e Maria Grazia Solano) dei tre giovani (tra i quali spicca Luigi Bignone). Sarà che da Perrotta ci aspettiamo sempre tanto. Ripetiamo tutto piacevole e fruibile da una platea sempre più allargata, ma vorremmo rivedere e ritrovare il vecchio spirito di quel ragazzo di Lecce che tanti anni fa si trasferì a Bologna.

Appassionato e REAL HEROES.jpgintenso il progetto di questa giovane compagnia calabrese che si è fatta le ossa e che adesso si sta facendo conoscere anche fuori i confini nazionali: stiamo parlando del gruppo Oscenica, ragazzi saggi, con la testa sulle spalle, con tanti bei progetti. Questo “Real Heroes” è una performance di teatro itinerante come ce ne sono state post pandemia, cuffie e qui, alla fine, anche i visori, ma qui c'è di più. Il progetto (che è già sbarcato in Cile, Argentina, Spagna, Grecia e Uruguay) nasce dall'incastro tra il regista Mauro Lamanna e l'autore cileno Justiniano Aguilera e infatti in audio, mentre camminiamo per Castrovillari, ascoltiamo una storia sudamericana e una prettamente del nostro Sud. Già Caparezza lo rappava nella sua "Eroe": "Sono un eroe, perché lotto tutte le ore, sono un eroe, perché combatto per la pensione, sono un eroe, perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari, dei cravattari, sono un eroe, perché sopravvivo al mestiere". E sono storie tremende di solitudine e abbandono che ci stringono e non ci lasciano andare, prima un padre cileno i cui due figli sono stati rapiti dalla polizia fascista, e un padre calabrese che l'usura ha messo sul lastrico e che poi ha perso il lavoro, la dignità, la famiglia, il figlio. La voce che ci accompagna è calda, gocciola una pioggerellina che non è fastidiosa, quasi rinfrescante, ci fa sentire vivi tra questi muri crepati e questo crepuscolo che s'affaccia tra i cretti della terra spaccata nella vallata e il vento che ci sbatte in faccia la fortuna del godere di libertà e democrazia: “Passeggiare è un atto rivoluzionario”. E c'è poesia urbana in queste parole che scivolano leggere tra il nostro serpentone di cuffie illuminate di blu: “I tetti sono l'ultima cosa dell'uomo e la prima di Dio”. Affascinante e soffice quest'affabulazione che ci prende per mano (ci ha ricordato “Farsi silenzio” di Marco Cacciola): se la prima storia era poderosa ma lontana, la seconda invece è tangibile e sembra di riconoscerne i confini e i contorni tra i marciapiedi divelti e le saracinesche chiuse, tra i luoghi derelitti e i negozi fatiscenti sfitti di Castrovillari. Si parla di usura, di pizzo, di strozzini, di camorra e malavita, dello Stato che non ti protegge prima per poi abbandonarti, lasciarti solo contro i mulini a vento, a lottare contro cose più grandi di te, senza soluzione, senza aiuti fin quando non scivoli nel fango, nella miseria, molti cadono rovinosamente nel suicidio. E' un racconto che ti entra sotto pelle fatto di piccole perle che riscaldano, confessioni di 6 personaggi.jpgLa casa non è un accrocchio di mattoni ma è un respiro”. E ancora: “Errare è camminare e fare errori. Errori ed eroi sono simili: siate errori, siate eroi”. Altro che Steve Jobs che voleva solamente vendermi un telefonino. Lacrime, brividi, applausi.

Ed eccoci a quello che a nostro avviso è stata la più bella ed esplosiva sorpresa tra le proposte osservate, le “Confessioni dei sei personaggi” di Baglioni/Bellani, giovane compagnia umbra (abbiamo seguito negli anni loro lavori come “Gianni” e “Mio padre non è ancora nato”) sempre affiatata, centrata, precisa. Un velatino sul fondale, oggetti sparsi di grande gusto e pathos vintage e una telecamera ad indagare come si può fare, tra thriller e noir, alla ricerca del dettaglio, della minuzia per arrivare, come detective, a sperare di risolvere l'annoso caso pirandelliano. Come sono andate le cose, approfondendo ambiti e scene, scenari e dialoghi sospesi, entrando nella psicologia dei gesti, scavando dentro i giorni che hanno scavato come goccia fino alla tragedia finale. Ogni personaggio prende la parola e si fa corpo, ora in Caroline Baglioni adesso in Stella Piccioni, simili intercambiabili, entrambe puntuali, caparbie, tenaci. Mentre l'una recita l'altra la riprende come camera(wo)man in presa diretta (cinema e teatro si fondono) e il tutto viene riproposto sul velatino-grande schermo. La regia è curata, razionale senza essere cervellotica, passionale senza quell'istintualità che porta a debordare. E' un microcosmo accurato, centellinato al millimetro, che descrive e spazia, un dispositivo che amplia e racconta, un meccanismo intellettuale che ci interroga. Entriamo dentro il perimetro della storia con loro, siamo dentro il dramma, lo viviamo e finalmente sentiamo le varie voci dei Sei in una sorta di diario di quegli anni, di quei giorni. Capiamo il prima, gli antefatti in questa macchina perfetta di momenti e ricordi che riaffiorano come un colpo di tosse o uno sputo, un rigurgito per buttarci in faccia la loro verità, ognuno secondo il loro punto di vista, ognuno annegando nei propri sensi di colpa, senza perdono, senza salvezza, in quel substrato infame e infamante, in quel limbo tra paradosso e sconfitta, schiacciati dall'esistenza senza riscosse né rivincite. E' una sorta di confessionale aperto, al quale abbiamo libero accesso da guardoni onanisti. Queste “Confessioni” sono ben costruite, ben architettate, pensate, ideate, strutturate, calibrate: un vero piacere. Davvero robusto. Questo è il teatro contemporaneo che ci piace, quello che dice: “Sul palco si gioca a fare sul serio”. Usciamo felici e turbati.

Tommaso Chimenti 08/10/2022

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