LISBONA – “Sono venuto nudo, mi hai coperto/ così ho imparato nudità e pudore/ il latte e la sua assenza./ Mi hai messo in bocca tutte le parole/ a cucchiaini, tranne una: mamma./ Quella l'inventa il figlio sbattendo le due labbra/ quella l'insegna il figlio”. (Erri De Luca)
“L’amore di tua madre non devi meritarlo, mentre devi meritarti quello di tuo padre”. (Robert Frost)
I Peeping Tom non tradiscono, la loro forza è travolgente, dirompente e avvolgente, a tratti non sense, di una poesia contagiosa e fulminante, colorata e straziante, una vertigine che accoglie e rilascia, spezza e si apre, stimola di ironia e taglia drammaticamente. Dopo aver visto “32 rue Vandenbranden” alla Biennale di Venezia e “Vader” a Bruxelles, “Moeder” è la seconda tappa del trittico sulla famiglia che si chiuderà con “Kinderen” (dopo Padre e Madre, i Figli). Le scene ideate e composte da Gabriela Carrizo e rese possibili dal gruppo di formidabili danzatori, ma anche ginnasti e acrobati, arrivano a scardinare il tema, a far sanguinare la riflessione, far lacrimare la discussione, scindere, sezionare l'argomento. Ad una scena catastrofica e lenta, paziente e meditativa, calma e soppesata fa da contraltare un'altra dove violenza e forza mostrano i muscoli, dove lo scompiglio è generale, la tempesta è in piena azione. In quest'alternanza, in questa altalena di sensazioni, di respiro ora misurato e placido e adesso angoscioso e ansimante, la “Madre” sviluppa il suo carico potenziale di visceralità che tocca ognuno di noi.
“La migliore accademia, le ginocchia di una madre” (James Russell Lowell).
Mater semper certa est, dicevano i latini. La madre è il miracolo che si fa vita, che ci fa vita, che con il suo dolore ci ha dato alla luce. Forse ci sentiamo per tutta la vita in debito con lei. La vita è donna, la vita è femmina. Venere e non Marte. A ritroso e con continui flashback, mischiando i piani, la scena si apre con la cassa della madre defunta che viene chiusa, una bara che è il lancinante suono dello zinco traforato dal trapano. Come in un sogno tremolante disegnato da Bosch, ci troviamo in una casa-museo dove tutto è dedicato alla mamma scomparsa e dove ogni oggetto è trattato come reliquia e dove ogni passo, ogni tocco, ogni calpestio ha il suono dell'acqua pasticciata e colpita, come se piedi e cose fossero posati o si muovessero su un tappeto di lacrime, su un velluto di pianto versato. Il passato ritorna prepotentemente come incubo gotico o miraggio di De Chirico, allieta o azzera e annienta con il suo bagliore, con queste incursioni, segnate e segnalate dall'allarme di luci e sonoro, da dietro il vetro della camera, ora mortuaria adesso da incubatrice nel regresso.
“Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono” (Honoré de Balzac).
L'impasto è illogico e visionario, borderline ammantato di onirico come in una tela di Pieter Brueghel: la parte nella luce realistica frigge ed è in netta discontinuità con le scene in penombra dove escono fuori i peggiori assilli, le oppressioni più soffocanti, le ossessioni più ansiogene, le allucinazioni deliranti, i turbamenti più angosciosi: figure che escono dai quadri, personaggi dei dipinti che mangiano le mani agli astanti o rilasciano sangue come feriti a morte, o ancora persone che escono dalle macchinette del caffè. Tutto è in trasformazione, come la vita, come il passare dei giorni che ci conduce alla morte. La madre, con il suo starci accanto, con il suo invecchiare, ci dà il senso del tempo che passa anche sulle nostre rughe.
“Il cordone ombelicale: la prima catena che abbiamo conosciuto, l’ultima che rimpiangiamo” (Fabrizio Caramagna). In queste funamboliche scene surreali i danzatori della compagnia belga fluttuano, perdono aderenza come tirati e spinti dalla bora o centrifugati, sembrano appartenere ad un ambiente senza gravità, cadono e si ribaltano, s'aggrovigliano, s'attorcigliano come contorsionisti, come stuntman, dischi rotti, vinili scratciati, rimbalzano come pinoli su un tavolo tremanti, inceppati al rallentie o vibranti e velocizzati. I Peeping Tom portano a compimento, con pulizia estetica estrema ed un rigore altissimo, un immaginario distorto e devastato, costellato e cosparso da queste forze sovrannaturali, poderose e sconosciute, oscure ed esoteriche, ora calamite, adesso catapulte. Per descrivere il lavoro dei PT non bastano le parole “sogno” ed “incubo”: stanno nel mezzo, in quell'infinito limbo oscillando tra il sommo e il terrificante.
“Dio non poteva essere dappertutto, così ha creato le madri” (Proverbio ebraico).
“La madre è sublime perché è tutta istinto. L’istinto materno è divinamente animale. La madre non è donna, ma femmina” (Victor Hugo).
Tommaso Chimenti 14/07/2017