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“Il fenomeno Laplante”: il capo indiano, Matteotti e il Fascismo

GENOVA – Il capitolo storico, dopo cento anni, riesumato dalla penna certosina di Maurizio Patella e messo in scena dal regista Emanuele Conte, è un momento poco conosciuto e frequentato dagli studiosi che è curioso portare alla comprensione di un ampio pubblico. Un teatro didattico e didascalico questo “Il fenomeno Laplante” (testo finalista Premio Riccione '21, prima nazionale, durata 1h10'; prod. Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse) senza dare ai due aggettivi connotazioni negative, ovvero il primo sinonimo di “insegnamento”, il secondo di “spiegazione”. Si racconta della strana storia di questo capotribù, indiano d'America, che per cinque anni ha scorrazzato in Europa, pagato per i suoi vizi ed eccessi da signore e aristocratici come da gerarchi in camicia nera. I fascisti vedevano nel nativo un esempio di coraggio, di forza, di un popolo che aveva combattuto per i propri ideali, per la propria libertà oltre, ovviamente, alla comune avversione per i nemici cowboy, gli odiati Yankee, gli avversari americani. Ora, la tesi di fondo potrebbe essere faziosa se il paragone, in alcuni passaggi abbastanza lampante e chiaro, dovesse laplante-800x600-1.jpgessere tra i tempi del Duce, gli inizi della dittatura (dove in molti dicevano “tra tre mesi sarà finita questa pagliacciata” e che poi invece durò vent'anni) e gli inizi di questo governo nostrano di centrodestra. Il testo però è del 2021. Dipanato il primo dubbio.

Seconda riflessione, sempre testuale: la narrazione procede a doppio binario tra le gesta folcloristiche e ridicole, ilari e incredibili del falso indiano (in realtà era un attore e truffatore canadese) e la morte di Giacomo Matteotti. Ecco che qui sorgono alcune domande; la messinscena è un'operetta elettro-macchiettistica con tre caratteri in scena (i sempre frizzantini Enrico Pittaluga, Luca Mammoli e Graziano Sirressi, il collettivo Generazione Disagio entrati da alcuni anni nelle produzioni del Teatro della Tosse), vestiti ognuno con uno dei colori della bandiera italiana e con costumi futuristico nostalgici, quasi tait da astronave intergalattica (di Daniele Sulewic). Tutto ha l'aria della rivista sopra le righe, del varietà leggero vagamente derisorio, del cabaret brillante ridanciano canzonatorio come se fossimo in un frullato tra i filmati dell'Istituto Luce, sprazzi di “Fascisti su Marte” di Corrado Guzzanti, un tocco di Superquark e delle inchieste di Andrea Purgatori, pennellate di Petrolini. Se quest'impostazione può essere consona per ricordare l'impostore e mistificatore che si prese gioco degli uomini del regime (ignoranti) per fini utilitaristici personali, è meno adatto però a rievocare i momenti drammatici precedenti il rapimento e la scomparsa di Matteotti e quelli successivi con la sparizione del cadavere prima e il rinvenimento poi dello scheletro. Stridono i due momenti messi a confronto, fanno davvero le scintille, grattano come gesso sulla lavagna. La recitazione frontale sul pubblico dà sempre quell'atmosfera di delucidazione e chiarimento, quella patina di teatro ragazzi (con l'adulto che imbocca la platea), di accompagnamento all'argomento per mano, con gli attori (sempre brillanti e spumeggianti) che si dividono il monologo in tre parti, intervallandosi, giocando, sempre, forzando situazioni e scene con il loro marchio di fabbrica e cifra consolidata della battuta ad effetto, della sottolineatura.

La storia, laplante-800x600-2.jpgdicevamo, è molto interessante e merita un approfondimento e bene ha fatto Patella a scoprirla dall'oblio, riportarla alla luce e a darcela in pasto: l'affabulatore millantatore, megalomane e bugiardo Laplante (traduzione “la pianta”, inteso però come quelle parassite) HD-020-_NZ65854.JPGsi spaccia per un valoroso capo di una tribù “pellerossa” (chiamati così all'epoca) che si faceva appellare “Cervo bianco” cercando soltanto un posto al sole, la bella vita, gli inviti ai party, i ricevimenti, alcool, cocaina, incontri nell'alta società, una sorta di accreditamento nei palazzi che contano. Quello che qui si evidenzia è la stupidità degli italiani al governo o di quelli abbienti nel (voler) credere a questo gigantesco bluff che faceva acqua da tutte le parti. Il bisogno insito nella natura umana (e non soltanto nell'italiano medio, leggenda questa) di cercare a tutti i costi l'Uomo forte al comando (che solleva ed è deresponsabilizzante) per risolvere tutti i problemi (anche Gesù in definitiva era questo; Bertold Brecht diceva al riguardo: “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”, forse quel popolo deve ancora nascere) qui viene visto, bollato ed etichettato come mancanza e deficit storico destrorso (anche se ci furono anche i vari Lenin, Stalin e Fidel tra gli altri) quasi a voler fare osservare una netta demarcazione culturale, e forse anche intellettiva, tra le due grandi fazioni politiche, a destra gli istupiditi, a sinistra gli illuminati. Le due società, del 1922 e del 2022, sono lontanissime, impossibile trovare un punto di contatto, è cambiato radicalmente l'intorno e il panorama circostante.

Se invece vogliamo vedere il tutto come una riflessione sulle fake news e sulla propaganda allora potremmo proporre una comparazione tra quell'Italia che fu, povera, analfabeta, poco scolarizzata, credulona, vittima dei governanti e di quel tempo, e la Russia attuale dove, con un bombardamento mediatico da decenni e con la soppressione delle libertà di stampa, pensiero e d'espressione, hanno fatto credere ai cittadini che vivono sotto Mosca e dintorni che l'Occidente li abbia aggrediti, che la Cecenia li abbia attaccati, che prima la Georgia li abbia assaliti e che recentemente l'Ucraina li abbia invasi.

Tommaso Chimenti 28/03/2023

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