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Se la faida imbratta di sangue, Aida cerca pace e bellezza

CATANZARO – Per entrare a Catanzaro si passa sopra il Ponte Morandi. Un altro. I ricordi recenti genovesi non portano niente di buono, soprattutto dopo che sono state intercettate delle conversazioni telefoniche dalle quali si evinceva che i materiali per la sua costruzione non fossero stati così ottimali. A Catanzaro tira forte sempre il vento (per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento). Una città di ascensori e funicolari. Dal belvedere, dove una scultura di un profilo stilizzato di donna appena accennato sembra tagliare le nuvole, in lontananza appare il mare coperto da decine di pale eoliche PHOTO-2021-11-28-13-15-13 (2).jpgche hanno imbruttito il panorama con il loro vorticoso ruotare perenne. Girano girano, bianche, in fondo, sulle colline verdi. Città delle tre V, San Vitaliano, il velluto e appunto il vento: “Trovare un vero amico è così raro come un dì senza vento a Catanzaro”, saggezza popolare. Storica ed eterna la diatriba con Reggio Calabria per spartirsi il capoluogo di regione. Alla fine del corso principale, accanto all'ex carcere, sui tanti alti pannelli di vetro che proteggono la struttura dalla furia di Eolo, sono state disegnate delle sagome nere di uomini di profilo che sembrano guardare la vallata: di gran lunga la cosa, artistica, più suggestiva della città.

Molti tifosi di calcio ricorderanno il rigore, immancabilmente dubbio, segnato poi da Brady all'ultima giornata in Catanzaro-Juventus del 1982 che dette un altro scudetto tentennante e controverso ai bianconeri stavolta ai danni della Fiorentina di Antognoni. Bianco e ricoperto di finestrelle è la strana struttura del Teatro Politeama che tutto sembra, un'astronave, un ospedale, uffici, una banca, un edificio oriental-sovietico, tranne che un teatro. I simboli della città ionica sono il morzello, piatto tipico con frattaglie, cuore, polmoni, trippa, fegato, stomaco affogato in salsa di pomodoro piccante e Massimo Palanca, attaccante mancino che ha fatto le fortune del Catanzaro tra serie A, B e C con un record del tutto particolare da fare invidia a quelli mediatici di Cristiano Ronaldo: tredici le marcature direttamente da calcio d'angolo.

Altri PHOTO-2021-11-28-13-15-15 (3).jpgrecord, poco invidiabili, però arrivano dalla cronaca nera e giudiziaria: centinaia di delitti, nella maggior parte dei casi senza un colpevole, attribuiti alla 'ndrangheta o a vendette tra famiglie che hanno insanguinato per decenni la vita di interi paesi con morti ammazzati sulle strade in nome dell'onore fioco, dell'orgoglio cieco e della difesa della dignità becera del proprio casato, per rimediare a presunte offese ricevute. Tre le faide salite alla ribalta nazionale dagli anni '90 ad oggi, quella di Taurianova, di San Luca e di Cittanova.

E proprio “giocando” sulla scomposizione lessicale del termine, i Mana Chuma, gruppo che ha radici sia calabresi che siciliane e da sempre è impegnato per un teatro che porti a galla temi e argomenti sociali e civili, hanno sciolto e spezzato la parola di vendetta traslitterandola in PHOTO-2021-11-28-13-15-16 (2).jpgquesto “F-Aida” dove dentro, come eros e thanatos, convivono l'odio e il sangue della faida ma anche la bellezza, l'arte e la dolcezza di Aida, come cultura operistica e come nome al femminile. Un'eccezionale e mirabile struttura imponente dell'artista Aldo Zucco riempie ed anima la scena con una vergine, madre e Madonna (ci ha ricordato la serie “Il Miracolo”), sulla sinistra, una mummia al centro (ci ha ricordato quelle del Convento dei Cappuccini di Palermo) su un tavolo operatorio da autopsia, quella del padre, e dietro una struttura-fondale-Titanic che sembra realizzata con pezzi di imbarcazioni andate a fondo nel Mediterraneo (ci è tornata alla mente la scenografia della piece “Kate i Rades” di Francesco Niccolini sulla nave albanese affondata nell'Adriatico dopo una collisione con la Marina Militare Italiana), parti in legno scolorite dal salmastro, colate a picco senza salvezza, senza respiro. Questa fortezza di cartapesta è anche, metaforicamente, l'ammasso di sovrastrutture all'interno della logica mafiosa dell'occhio per occhio, delle usanze triviali e tribali e rurali della giustizia pret a porter, fai da te: sembra le case di fango yemenite con le finestrelle come bocche della verità o feritoie di palazzi medievali arroccati ad antiche tradizioni barbare, aperture come erose dai topi che ci hanno portato alla memoria le torri di Kiefer (o i sette Palazzi Celesti) esposte permanentemente al Pirelli Hangar Bicocca a Milano. Sembra di stare dentro la pellicola “Anime nere” di Francesco Munzi. Una Calabria in bianco e nero chiazzata di sangue a pois, schizzata di plasma e 'nduja.

Il racconto di Massimo Barilla, condiviso come la regia con Salvatore Arena, è onomatopeico e poetico e allo stesso tempo intriso di quella pasta e materia talmente concreta da ferire, da far male all'ascolto, parole che suscitano ed esprimono una violenza ancestrale contro la quale sembra non esserci PHOTO-2021-11-28-13-15-18 (2).jpgrimedio né riscatto né argine né salvagente né purificazione né redenzione. Un mondo corrotto e putrefatto, aggrovigliato su se stesso, che alimenta i suoi figli per farne carne da macello, nuove mattanze per lordare le strade, i vicoli, i marciapiedi per colorare quel mondo antico e buio di nuovo dolore. Arena, solo in scena, incarna in sé, con la consueta forza espressiva e generosità (sua cifra stilistica), una potenza che sembra farsi carico di ogni parola, di ogni sospensione, un'interpretazione partecipata e vissuta centimetro dopo centimetro, respiro dopo respiro sulla pelle, un incedere concitato, un intercalare caracollante, pastoso come ematocrito. Arena non si risparmia, è cuore, è pancia, è fegato, è stomaco.

Il pretesto di questa faida è un agnello nato dal montone di una famiglia e dalla pecora della rivale: i Malapaglia e i Cacciacarta che si appicPHOTO-2021-11-28-13-15-16.jpgciano immediatamente. Come Montecchi e Capuleti. Occhio per occhio e il mondo diventa cieco, sosteneva Gandhi. Pecora, montone e agnello, animali sacrificali come i giovani, gli uomini e i componenti delle due famiglie che si annientano come bestie cadendo come birilli. In questa guerra di rancore rancido che insozza le vite del paese esiste, in tanta sofferenza, uno spiraglio, non tanto di affrancamento ma almeno di intelligenza e lungimiranza nel voler fermare questo stillicidio di corpi: altri agnelli da sgozzare, stavolta con fattezze umane, Rocco (forse proviene dal Fidelio?) e Alfredo (dalla Traviata?), decidono, come Romeo e Romeo, di interrompere questa carneficina. E' una sottotraccia della narrazione, storia nella storia, un fiore deandreianamente nato da tanto letame. Una sorta di perdono (sostantivo). Dove perdono (verbo) tutti. Rocco che, dopo essere stato rinchiuso come un animale in gabbia dal padre in una gattabuia per anni, si trasforma in Aida, che è bellezza e canto e struggimento (musiche di Luigi Polimeni) e l'elemento machista si scioglie e i sentimenti cancerogeni si sfaldano e i nodi maschilisti cedono inesorabilmente: “E' questo l'amore? Questo male che ci avvelena, questa corda che ci stringe”. Tutto lo spettacolo è una lunga confessione rabbiosa sul cadavere del padre, fonte di odio e distruzione. Un teatro di morsi, di denti da strappare, di carne da macellare, un teatro che sanguina, un teatro di fango e lacrime. Se ne esce tagliati e increduli, feriti e consapevoli.

Tommaso Chimenti 30/11/2021

 

Foto: Marco Costantino

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