CAGLIARI – Ci sono muri che raccontano a distanza di anni, pareti che a sfiorarle, polpastrelli a raschiare l'intonaco narrano di voci, di volti, di sguardi, di corpi persi nel tempo, di rughe e fatica, di mani e sudore. “Se queste mura potessero parlare” non è soltanto un modo di dire, una frase fatta che qui acquista verità. Se gli oggetti, le cose le trattiamo come qualcosa di inanimato sono e resteranno materia senz'anima, bidimensionali, se invece ci mettiamo in ascolto, petto e testa aperti, allora li sentiremo sussurrare, li sentiremo respirare, prenderanno forma e vita, avranno la terza dimensione, la profondità, avranno carattere e forza, restituiranno tutto quello che hanno contenuto, l'atmosfera, la luce, anche il dolore.
E' una grande operazione culturale quella messa in piedi dal regista Karim Galici e dalla sua compagnia Impatto Teatro con questo “Cosa rimane?”, mossa di restituzione di un luogo chiuso e vietato per troppo tempo alla cittadinanza e che adesso torna ad essere aperto, per conoscere la storia di questa città nella città. “Sa Manifattura”, la manifattura tabacchi del Monopolio di Stato, era una delle ventuno sparse in Italia dove si producevano sigarette e sigari di ogni tipo. Adesso ne rimangono attive soltanto tre e in mano a privati (Chiaravalle, Lucca, Cava dei Tirreni) ma il mercato si è spostato e il Monopolio importa i tabacchi dall'estero.
Le manifatture in Italia davano lavoro complessivamente a 4.000 dipendenti, ed erano a Lucca, Firenze, Rovereto, Bologna, Modena, Milano, Torino, Verona, Lecce, Bari, Catania, Cagliari, Chiaravalle, Venezia, Roma, Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Napoli, Cava de' Tirreni, Scafati, Città Sant'Angelo, Perugia, Casalina di Deruta, Sestri Ponente. Quella di Cagliari era una fabbrica, con 300 tra operai e impiegati, aperta agli inizi del Novecento e chiusa definitivamente nel 2001. Un'azienda che ha dentro di sé, come una matrioska, una metafora, tante storie, più o meno piccole, sociologiche, storiche, antropologiche, lavorative, sindacali, esistenziali. Dove ti volti li senti quei volti antichi in bianco e nero che si accalcano per guardarti, per descriverti, per riuscire a passarti un po' di quel refolo di fiato che è stato, di quell'ansimo, di quel (g)orgoglio che qui si è alimentato, è cresciuto, è vissuto.
E adesso “Cosa rimane?” (prod. Impatto Teatro con Sardegna Ricerche e contributo di Fondazione di Sardegna) si è chiesto Galici che ha fondato tutta la sua carriera sulla scelta poetica e politica di creare teatro in spazi non convenzionali (dai centri storici agli orti botanici, castelli o villaggi nuragici) ma non soltanto per rifuggire al “teatro” e alle sue regole ma proprio per costruire una narrazione territoriale che prendesse spunto dal contesto e su quello fondasse la sua drammaturgia. Per Galici il testo è, deve essere, assolutamente interconnesso al luogo, che non è solo fondale ma che anzi è un vero e proprio corpo e personaggio, ruolo centrale e fondamentale. La dicitura site specific non è soltanto proporre teatro in un luogo ma le parole devono necessariamente essere intrecciate a quel particolare spazio fisico. E' per questo che i suoi spettacoli (chiamarle esperienze è meglio) non sono per così dire trasportabili né in altri luoghi né limitabili ad un palcoscenico. L'essere itinerante, come un viaggio dentro gli argomenti e i temi per meglio comprenderli (interattivamente, didatticamente attraverso la parola raccolta, le interviste, l'accumulo di materiali, le ricerche negli archivi), il pubblico numericamente limitato per ogni replica, il camminare tentando così un avvicinamento alla verità fanno del teatro di Impatto (formazione fondata agli inizi del 2000 a Roma e poi trasferitasi a Cagliari) una scoperta continua, un'epifania, scavando in un passato recente dal quale, fisicamente, si è voluta lasciare la città e i suoi abitanti ignari. Ben vengano queste prese di posizione artistiche che aprono i cancelli, che forzano i lucchetti, che spalancano le porte, che la memoria deve circolare, che i racconti devono fluire, per non perdere nell'oblio del tempo, che tutto appiccica come marmellata e schiaccia come pressa, questi nomi antichi, queste vite, questi soffi di esistenze comuni, che non hanno fatto la Storia (intesa come eventi eccezionali) ma hanno dentro infinite storie di lavoro, di sfruttamento, di diritti tutti da conquistare, di rispetto, di cambiamenti epocali, di lotta, di rivolte, di emancipazione femminile.
Due anni il tempo per mettere insieme tutto il materiale occorso per questa full immersion dentro le stanze della Manifattura che diventano set e quadri e dove gli attori sono mischiati con i non-attori, o meglio i veri protagonisti delle vicende narrate, ex lavoratori che hanno toccato con le loro mani, che hanno visto con i loro occhi. Altro aspetto essenziale e primario delle ispirazioni di Galici è senz'altro anche il teatro sensoriale che lo avvicina a gruppi come il Teatro de los sentidos di Enrique Vargas: l'odore del tabacco come quello del caffè, o il bendare i partecipanti esaltano, amplificano, rendono lo spettatore attivo e in prima linea, creano un filo trasognante che sottolinea e scorre sotto pelle, che si tatua nella mente degli intervenuti. Si crea alchimia ed empatia. Accompagnati dal nostro Caronte-Virgilio (Adriana Monteverde “la Sigaraia”, chi faceva i sigari erano soltanto le donne per via della delicatezza delle mani: “Questa è e resta casa mia!”) entriamo in punta di piedi in questo mondo sconosciuto, dentro la pancia di questo mostro gigantesco, una vera cittadella che nei secoli era stata convento francescano e fortezza. Il buio, rischiarato da fiaccole a terra, gioca un ruolo fondamentale di ombre che ingigantiscono aumentando attesa e suspense. Come carbonari avanziamo e in ogni cortile o stanzone ci accoglie un pezzo vivente, un performer che rievoca, ci riporta in quegli anni, spiriti riesumati, anime che traboccano di voglia di comunicare cos'era quel luogo, chi lo abitava e viveva e come si svolgeva l'attività, i rapporti di lavoro e di forza, le regole fasciste, le relazioni, le malattie per il continuo respirare la polvere e il truciolato, gli infortuni sul lavoro, l'asilo dei neonati, il lavoro a cottimo e le balie-nutrici.
Passiamo dalla “Sindacalista” (Monica Zuncheddu, grande forza: “La manifattura è nostra”) dove tutti insieme brindiamo, dopo la sua arringa incendiata, con un vino corposo prodotto dallo stesso regista, un nettare liquoroso che scalda. Ma ci sono anche inserti non attoriali, persone che hanno lavorato realmente all'interno della manifattura e che hanno deciso di raccontarla direttamente con le loro parole, mettendoci la faccia; come Giuseppe Martini, “l'infermiere” che ha perso la vista (e che bendandoci tutti ci ha permesso di sentire quello che sentito lui lì dentro orientandosi soltanto con i rumori delle varie stanze per capire che percorso fare all'interno della fabbrica) o Emidio Porru “l'operaio”. Onirico invece l'intervento di Andres Gutierrez che, spuntato da sotto un cumulo di foglie, ha impersonato lo spirito guida del tabacco tra candele e riti che diventa pifferaio magico. Le loro memorie sono toccanti e ci parlano di soprusi, di mancanza di equità, di battagliare. Non solo narrazione però, perché ci sono coreografie e balli e canti ma anche proiezioni che ci riportano alla vita all'interno della fabbrica che diveniva totalizzante: qui c'era la chiesa e le feste, qui c'era il cinema-teatro, la socialità, qui ci si sposava e si trovava marito o moglie: si entrava giovani e se ne usciva vecchi. La fabbrica non era soltanto un lavoro: “Non siamo bulloni come vogliono farci credere”.
Quella di Karim Galici non è un'operazione nostalgia ma è un restituire uno spaccato che altrimenti (questo è il potere dell'arte e del teatro) si sarebbe perduto con la morte anagrafica dei suoi protagonisti. Sarebbero importanti altre esperienze del genere perché, frase abusata ma vera, senza passato non può esserci futuro, per una comunità, per una nazione, per un Paese. Per questo, oltre allo spettacolo teatrale, sarà realizzato un film documentario per poter raggiungere tutte quelle persone che non hanno potuto, soprattutto le scuole, seguire il progetto in presenza (tutte le repliche sono andate sold out, tanta era l'attesa in città). “Cosa rimane?” Adesso potremo rispondere che resterà questa esperienza-spettacolo per contrastare il silenzio, la dimenticanza, l'omertà, la trascuratezza, la negligenza. La Manifattura adesso è di tutta Cagliari.
Tommaso Chimenti 21/06/2021