BOLOGNA - “Credo che si diventi quel che nostro padre ci ha insegnato nei tempi morti, mentre non si preoccupava di educarci. Ci si forma su scarti di saggezza” (Umberto Eco).
La grande virtù di Gianfranco Berardi, sempre coadiuvato dall'importante presenza di Gabriella Casolari (in scena come nella scrittura), è sempre stata quella di creare una mappa drammaturgica, una geografia scenica dalla quale la linearità era esclusa, espulsa, ma che, al contrario, come montagne, come macchie di leopardo, a frammenti vivissimi, è riuscita a miscelare ora il piccolo, lo stretto, il conico dentro l'autobiografia per rilanciare con ancora più forza all'universalità dei rapporti, delle relazioni, dell'umano. Berardi sul palco è un rocker, è benedetto e maledetto insieme, è Iggy Pop e Dino Campana, è Michael Jackson e Bukowsky, è Michael Jordan e Baudelaire, è Jim Morrison e Basquiat. Potremmo osare scomodando anche Carmelo Bene.
Questo nuovo “Amleto take away” (prod. Teatro dell'Elfo, sostegno Ert, Armunia, comune di Rimini; in anteprima all'Arena del Sole, il debutto ufficiale sarà al festival “Primavera dei teatri” a Castrovillari il prossimo maggio) prosegue sui due filoni cari alla coppia pugliese-emiliana: il discorso del teatro sul teatro (cita irriverente i maestri Cesar Brie, Danio Manfredini e Pippo Delbono) e quello, chiamiamolo, “familiare”. Perché sta tutto lì, da dove si viene e dove si vuole andare, il guscio e la ricerca delle ali. E lo fanno con coraggio e grande autoironia, con stoccate e indietreggiamenti, con rincorse e scudisciate. Sembrano Zampanò e la Masina, l'uno debordante, l'altra saggia.
Se Berardi in questo nuovo lavoro (ha la maglia dell'Inter con il numero 9 e sopra le spalle la scritta Amleto; l'Inter è la squadra del vorrei ma non posso, del “braccino corto”, delle grandi imprese come del perdersi in un bicchier d'acqua) è il front man, la Casolari è, più che il servo di scena che movimenta luci e oggetti, il regista kantoriano che aziona i dispositivi, dà le pause, direziona sguardi e parentesi, suggerisce con piccoli tocchi. Il duo collima, il duetto funziona, amalgamato dagli anni, ben impastato. Nelle loro parole c'è una densa ferocia tenera e una candida delicatezza crudele, Berardi, tarantolato, fisico e muscolare, carnale e tattile, distruttivo e passionale, ti sbatte in faccia le cose, senza pentimenti, senza false ipocrisie, senza tanti giri di parole, va dritto al punto, al sodo, al cuore, colpisce al fegato, senza pietà. E di sottofondo c'è questa triangolazione salvifica e illuminante tra Amleto, e il fantasma del padre che lo muove, Cristo, e l'assenza del padre che lo spinge, e Gianfranco, e la vita del padre che lo pungola in un rapporto d'incastri, d'incomprensioni ma anche di piccoli giganteschi gesti o parole smozzicate che valgono tutti gli sguardi che non si sono potuti dare.
Berardi sul palco è un bulldozer, un caterpillar, si mangia la scena, la divora, la sbrana, la ingoia, la sputa, la ammalia, la fa sua, la ammanta, la lecca, la distrugge, la vomita, la seduce, la contorce, la plasma, la doma e la domina, la spoglia, la sfascia, la cavalca. Si spoglia a torso duro diventando un angelo dal corpo tonico, affusolato e scolpito, allenato e atletico. Quest'Amleto-Berardi porta sulle larghe spalle la croce del teatro (un sipario al quale è legato come Prometeo incatenato) come Cristo nella sua passione, tra dolori e sofferenze. Lentamente, scavando, addentrandosi nel bosco, nei rovi sanguinanti del testo, l'Amleto ha sempre più i contorni e il volto di Berardi in questa lotta con l'esterno, con questa grande vitalità compressa, schiacciata, con questo padre che non è affatto un fantasma ma si fa sentire soprattutto nei silenzi, anche nei vuoti.
Ma il nostro Amleto cresce e doma, con l'amore non con la forza, questo padre che prima legge arrogante a tavola Tex Willer e poi “gioca” stanco e vinto con il figlio a farsi togliere il pulviscolo, i granelli di carbone nero che l'Ilva gli dona in regalo ogni giorno sul posto di lavoro. Si sente la fatica di vivere, di sopravvivere, di continuare a sperare, a sognare. Si sente anche l'impossibilità e la sconfitta ma non per questo la resa, la forza e la disperazione, il coraggio e la disfatta, il desiderio e l'impotenza. Sta tutto qua, nell'elastico che si è capaci di tendere, di spostare, di forgiare a nostro vantaggio, tra ciò che si vuol fare e quello che si può fare. Come ha fatto Berardi creando, con il lavoro e il talento, la perseveranza e la cocciutaggine, una fortezza da una debolezza, ribaltare un handicap in ricchezza interiore. Cristo e Amleto hanno fatto una brutta fine: lunga vita a Berardi.
Tommaso Chimenti 06/04/2018