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Al Teatro Vascello un "Funambolo" in equilibrio sul filo della solitudine

Si muove in bilico tra performance teatrale e circense, volteggia in perfetto equilibrio tra immagini, luci, movimenti, musiche, riflessioni e parole, l’affascinante e suggestivo “Funambolo” di Daniele Salvo. Partendo dall’omonima opera di Jean Genet, il regista racconta la storia dell’incontro tra lo scrittore e il giovane circense Abdallah Bentaga e il loro particolare, intenso rapporto, attraverso uno spettacolo dal forte impatto emotivo.
Su una scena circolare apparentemente roteante, una pista da circo, l’artista si muove a passo di danza sottobraccio a un violino e, accompagnato da melodie rétro, s’imbatte nel maturo e saggio Genet che, quasi come un prestigiatore con bastone e doppio petto, lo incanta istruendolo con il suo sapere, convincendolo ad abbandonarsi al rischioso fascino dell’arte del camminare sul filo.funambolo2
Ne emerge una profonda riflessione sul ruolo del funambolo, intreccio di coraggio e imperfezione, e sull’amore che lo lega al suo filo d’acciaio, quell’ amore che sa di morte e che nasce dalla morte, da quelle ferite e da quelle paure che lo spingono a reagire.
La vera morte che attanaglia l’acrobata è infatti quella che lo coglie prima del suo salto sulla fune, che sulla scena prende le sembianze di clown funerei con scheletri e teschi: sono semplicemente i fantasmi interiori che abitano il suo castello dell’anima e che sottolineano la sua estrema solitudine. È la solitudine mortale dell’artista che lo conduce all’audacia, a voler apparire e sedurre il suo pubblico per riacquistare lo slancio vitale tra gli applausi.
Questo dramma della solitudine si consuma in una dimensione onirica, scissa tra il sogno e l’immagine reale del giovane Abdallah, tra se stesso e l’immagine di sé, che si rispecchia anche sulla scena che è appunto doppia: al proscenio circolare dove avviene l’azione fa da sfondo uno schermo che ad intermittenza prende vita, dietro il quale si mimano e sul quale si proiettano o funambolo3si riflettono alcune figure, specchio di ciò che sta accadendo. Così Giuseppe Zeno, perfetto connubio di mimica, intensità e movimento, dà corpo e anima ad un funambolo in fieri, diviso tra quello che è e quello che vuole apparire, che danza accompagnato dai movimenti fluidi dei ballerini Yari Molinari e Giovanni Scura, e dalla limpida voce di Melania Giglio, mentre i racconti e le parole di Genet, interpretato da un impeccabile e profondo Andrea Giordana, lo conducono a muovere i passi verso quel filo, e a portare la morte ai confini della notte.
Come un narciso innamorato del suo aspetto, ballando per se stesso e indossando la sua maschera, il funambolo diventa emblema della drammaturgia circense, un inno alla poesia e agli artisti che rischiano tutto camminando sulla fune del tempo, grazie ad una regia sfavillante che riesce a coniugare perfettamente momenti musicali, sipari circensi, danza e proiezioni che hanno la capacità di creare quasi “un film teatrale”, che rapisce, cattura e affascina con la potenza delle immagini, con echi felliniani e sfumature fortemente filosofiche.

Maresa Palmacci 05/10/2016

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